Controcultura

Così Ridley Scott ha divorato la fantascienza per partorire un "Alien"

Così Ridley Scott ha divorato la fantascienza per partorire un "Alien"

L'equazione era lineare. Il multisala stava al cinema come l'extraterrestre alla realtà. Soglie metropolitane. Confini universali. Alla fine degli anni '70 ogni locale aveva un solo schermo e alle prime visioni si aggiungevano proseguimenti, seconde e addirittura «altre visioni». Ovvero le sgangherate sale di quartiere, dove si fumava e la pellicola - allora c'era ancora - poteva gracchiare per il logorio di fine sfruttamento. La nuova era, che avrebbe cancellato un modo di vedere film e luoghi dove assistervi, coincideva con un'idea di futuro che prendeva corpo proprio in celluloide.

Undici anni prima, in 2001 odissea nello spazio Stanley Kubrick aveva raccontato una sorta di evoluzione della specie, fino a una frontiera che oggi è il passato. Due anni prima, Steven Spielberg aveva immaginato un pacifico e benevolo contatto con creature di altri mondi in Incontri ravvicinati del terzo tipo. Già, ma prima di cosa... Correva l'anno 1979, quello in cui Ridley Scott legò il suo nome ad Alien. In Italia sarebbe uscito il 25 ottobre, cinque mesi dopo la prima americana. Da allora ben poco rimase al suo posto. Il film - che celebra i quarant'anni con un succinto volume di Boris Battaglia edito da Armillaria - ha il programmatico sottotitolo «Nascita di un nuovo immaginario», evocativo dello spartiacque che è stato. A livello di contenuti, tanto per cominciare.

Gli alieni non erano i paciosi vicini della porta accanto come apparivano in Incontri ravvicinati, né il tenero pupazzotto di E.T. che - nell'82 - avrebbe puntato il dito verso la volta celeste, supplicando quel «telefono casa» di qualunque bambino, perdutosi all'improvviso. La nuova «creatura» faceva paura. Uccideva. Aveva una forma fallica minacciosa, al punto da inseminare un componente della Nostromo, la navicella in viaggio nel cosmo del terrore. E una voracità insaziabile che lo portava a sterminare gli astronauti. Tutti tranne uno, pardon una. Ellen Ripley. Nata sulla luna il 7 gennaio 2092 nell'insediamento coloniale Olympia e nel 2120, a 28 anni, nominata terzo ufficiale della nave cargo Nostromo.

Interpretata da un'allora sconosciuta Sigourney Weaver, l'unica superstite della missione era una tra le attrici più mascoline del circo hollywoodiano, lanciata da un altro allora semi esordiente, avvistato dalla Fox nel '77 a Cannes dove aveva presentato la sua opera prima, I duellanti. Quell'uomo era Ridley Scott, che forse si era creato un alter ego con quella giovane interprete alla quale aveva assegnato il nome di Ripley, cioè il proprio con una lettera ruotata di 180 gradi. Sessualità ambigua. Come il nemico. L'alieno, appunto. Lo xenomorfo, dicitura ereditata dalla mineralogia per indicare i cristalli che non acquisiscono la forma attesa a causa dell'interferenza di altri minerali. In buona sostanza, una trasposizione dell'uomo. E un contrasto tra Ripley che vede e il mostro, privo di occhi.

Sconfinare nei mondi è un modo di abbracciare discipline diverse. Fu Jacques Derrida a sottolineare che lo sguardo non era sufficiente come forma di conoscenza. In Memorie di cieco spiegava come il vedere fosse lo stadio primario per stabilire un contatto che è anche con-tatto. Cioè l'incontro con l'Altro. E si torna così all'alieno, evocativa figura di trascendenze fantasiose che sconfinano - nuovamente - in un antropomorfo capace di ingravidare un uomo e ucciderlo con il parto. Mascolino e femminino si amalgamano fino a confondere le sessualità. Tatti e con-tatti. Visivi e visuali. Concreti e tangibili. Un passo oltre L'invasione degli ultracorpi in cui nel '56 Don Siegel aveva immaginato la clonazione su corpi che corrispondevano a quelli plasmati dall'anatomia.

La frontiera dell'irreale diventa fantasia di realtà. Perfino geografica. Zeta II Reticuli, il pianeta dove avviene l'incontro tra l'equipaggio della Nostromo e il mostro dello spazio, è il secondo di un sistema stellare binario che si trova a 39,2 anni luce dalla terra. Luoghi. Aloni di postmodernità nella Settima arte. Dal cinema dell'icona a quello del simulacro. Ovvero, da un'immagine che testimonia la reale presenza del soggetto, dell'oggetto e dell'ambiente a una prospettiva virtuale, sganciata da ogni forma di realtà e - in quanto simulazione - figlia di quello stesso artificioso contesto. Così Alien costituisce uno dei primi esempi del postmoderno su uno schermo. Un'opera che si sottrae perfino alla classificazione. Fantascienza o horror. All'epoca il genere era rigorosamente unitario mentre oggi ogni titolo mostra assimilazioni a molteplici categorie. Echi, anch'essi, di postmodernismo. Dopo quarant'anni Alien è invecchiato e non mette più paura a nessuno ma, in fondo, questo è stato il grande equivoco di un film che voleva mostrare il vero volto del terrore senza tuttavia provocare spavento. Mistero della ricerca. E di una frontiera lontana che ora anche Ad astra si propone di violare, a caccia di nuove forme di vita nelle galassie.

Anche qui il protagonista tornerà solo ma, a differenza di Ripley, avrà combattuto con le allucinazioni di un padre in cerca dell'alieno che non c'è.

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