La crisi falcia pure i manager: 100mila a casa

La crisi, nelle aziende, taglia anche le teste. Dal 2008, un dirigente su cinque ha perso il posto: perché la sua azienda ha chiuso, o si è trasferita dove il lavoro costa meno, o semplicemente per una riorganizzazione interna. Se gli è andata bene, si è trasformato in imprenditore di se stesso: altrimenti, si ritrova, magari a cinquant’anni, alle prese con un mercato del lavoro immobile e si trasforma in precario. O in disoccupato.
A trovarsi in questa situazione sono oltre centomila ex manager, secondo i dati Istat: il numero degli occupati con profilo professionale di dirigente è sceso da 500mila unità nel 2008 a 396mila nel 2011. Non se ne parla spesso, anche perché si tende a pensare che in fondo si tratta di una categoria privilegiata: dimenticando però che è anche quella dove la falce della crisi ha colpito più duramente. In Italia la riduzione del personale dirigente in tre anni è stata del 20,8%: nello stesso periodo, il numero complessivo di chi lavora è sceso dell’l,9 per cento.
La contrazione non risparmia il settore pubblico, ma è sul privato che il «dimagrimento, anche comprensibile, dell’organico dirigenziale - spiega il presidente di Federmanager, Giorgio Ambrogioni -rischia di passare all’anoressia». È qui infatti che la crisi ha provocato un processo profondo di ristrutturazione, che ha colpito a tutti i livelli. Così, le piccole e medie imprese diventano sempre più piccole, al contrario, oltretutto, di quello che occorrerebbe per far fronte alle esigenze della globalizzazione: e le grandi aziende, che negli anni Ottanta e Novanta avevano magari gonfiato gli organici dirigenziali, ora sono obbligati a ridurli. Senza dimenticare la delocalizzazione, che sposta all’estero tante realtà produttive prima situate in Italia. E le teste cadono. Soprattutto quelle con i capelli grigi.
Spesso, infatti, a finire sacrificati sull’altare del taglio dei costi sono i dirigenti meno giovani ma con più esperienza e competenze: un dramma personale e sociale, oggi ancora più serio alla luce della riforma previdenziale e dell’innalzamento dell’età pensionabile, e della contemporanea scomparsa dell’esodo incentivato, tradizionale modalità di uscita consensuale dal lavoro per i dirigenti over 50, che in qualche modo consentiva di agganciarsi alla pensione senza troppe difficoltà. Ma anche un patrimonio di risorse per l’economia italiana, che rischia di andare perso.
Solo i più fortunati infatti riescono a restare occupati, anche se a malapena una minima parte riottiene la stessa qualifica. Così bisogna vedere il bicchiere mezzo pieno quando un ex dirigente si ritrova declassato a quadro, o addirittura diventa co.co.pro, trasformandosi in consulente di uno o più piccoli imprenditori che non possono fare assunzioni ma approfittano delle competenze di un esperto per essere più competitivi. Esistono, quindi, anche manager «precari», per cui, sottolinea Ambrogioni, si pone il problema di una scarsa protezione: «C’è - rileva - un management atipico fatto di figure professionali, di cui ci stiamo occupando, perché al momento sono sole, senza tutele previdenziali, assistenziali o assicurative». Per non parlare di chi sta ancora peggio, perché il lavoro l’ha perso definitivamente, e non ha ammortizzatori sociali: «I dirigenti sono gli unici lavoratori dipendenti che non hanno alcuna tutela reale del loro posto di lavoro, possono essere licenziati in qualunque momento. Paghiamo i contributi per mobilità ma ne siamo esclusi per legge». Non a caso già il mese scorso Ambrogioni ha chiesto al viceministro del lavoro Michel Martone il riavvio del «Tavolo sulle problematiche dei manager» che era stato aperto dal governo Berlusconi.

Intanto, spiega il presidente di Federmanager, «insieme con Confindustria stiamo lanciando e finanziamo un progetto che vede i nostri dirigenti disoccupati mettersi a disposizioni delle Pmi che si fanno avanti per attività di coaching, formazione nei confronti del piccolo imprenditore, dei suoi dipendenti, perché siamo convinti che questa espulsione di dirigenti anche bravi sia una perdita di valore per il sistema Paese».

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