"La crisi? È la nostra grande occasione"

Robert Thurman, il famoso studioso del buddismo che Time considera tra gli uomini più influenti degli Usa, racconta perché bisogna essere ottimisti: "Il sistema economico non funzionava più. Ora possiamo riequilibrarlo"

"La crisi? È la nostra grande occasione"

Lugano - Dal buddismo ha imparato la gioia di vivere, della sua America ha conservato l’entusiasmo e la voglia di fare. Quando incontri Robert Thurman capisci perché la rivista Time lo inserì, qualche anno fa, nella lista delle dieci personalità più influenti degli Stati Uniti.

È un comunicatore travolgente e generoso. Quindici minuti di intervista diventano facilmente quarantacinque minuti e se viene fermato per strada si ferma a parlare con tutti, senza badare all’orologio. Da giovane fu il primo occidentale a essere consacrato monaco buddista, poi abbandonò la toga per sposare una ragazza svedese, Nena, che gli diede cinque figli; una delle quali oggi molto famosa, l’attrice Uma Thurman. Oggi insegna Studi indo-tibetani buddisti alla Colombia university di New York, è saggista di grande successo ed è amico e consigliere del Dalai Lama a cui ha dedicato il suo ultimo libro (Why the Dalai Lama matters, perché il Dalai Lama conta).

Nei giorni scorsi era Lugano per inaugurare la nuova sede di Tibet House Switzerland, la fondazione che sostiene la causa e la cultura tibetane. E in questo momento di crisi, il suo è un punto di vista originale, quello di un americano spirituale.

Robert Thurman, c’è molto pessimismo nell’aria lo condivide?
«No, penso che questa crisi sia stata provvidenziale e che stiamo vivendo un’epoca straordinaria. Sia chiaro: io non nego la crisi economica. Al contrario, ma penso l’esplosione della bolla creditizia rappresenti un'occasione unica e se non la sprecheremo riusciremo a creare un mondo migliore».

Eppure in questi giorni in Occidente prevalgono il rancore, l’odio; sentimenti che il buddismo insegna a combattere. Come fa a essere ottimista?
«Sì il buddismo insegna a dominare la rabbia e le manifestazioni più violente non sono accettabili. Per quanti torti una persona abbia commesso, non va uccisa, né ferita. È sbagliato bruciare o danneggiarli la casa. Tuttavia è un bene che la coscienza collettiva degli americani si sia risvegliata. Urlano un poco? Se la gente smette di dare ascolto a certe élite e costringe chi ha provocato questo disastro a prendersi le proprie responsabilità questo può essere positivo».

Una coscienza che prima era assopita, perché?
«Perché prevaleva l’egoismo. Molti si rendevano conto degli abusi di un gruppo ristretto di persone, di lobbies molto potenti come quelle delle banche, ma finché riuscivano ad andare avanti si dicevano: cosa posso rimediare da solo? E siccome tutti pensavano così, nulla cambiava davvero. D’altronde bastava accendere la tele per distrarsi: chi parlava dei problemi reali? Nessuno, tutto era trasformato in uno spettacolo, anche l’informazione».

Ma non c’è il rischio che prevalga la violenza?
«Sì, è una possibilità, perché si è abusato del popolo per troppo tempo e la storia insegna che in questi frangenti può dilagare il razzismo, la prevaricazione o addirittura che si profondi nella dittatura. Tuttavia la crisi socialmente non è ancora degenerata. Dopo ogni grande tragedia, la gente si scopre migliore. All’indomani dell’undici settembre i newyorkesi erano solidali, si cercavano, e io mi auguro che, vista la vastità dei problemi, lo stesso possa accadere ora, Anche se non dobbiamo farci illusioni: questa è un recessione profonda, ci vorrà molto tempo per risolverla».

Lei ha appoggiato Obama in campagna elettorale. E ora come lo giudica?
«Purtroppo Obama ascolta troppo Wall Street, si fa impressionare da gente come Rubin, Geithner, Summers, è condizionato dalla lobby della banche. E per questo non ha il coraggio di rompere decisamente con il passato. Io spero che lo faccia e ho ancora molta fiducia in lui; ma se aspetta troppo, rischia di perdere la popolarità e quando questo accadrà ogni possibilità di riforma sarà svanita. Anzi, la gente inizierà a dire: “È colpa di Obama”. È un rischio molto serio».

Ma allora perché ritiene che questa crisi sia un’opportunità?
«Perché il sistema così non poteva funzionare: stavamo correndo verso il disastro. Tutto a credito, tutto esasperato, centinaia di milioni di persone strappate alla campagne. Il governo americano e le grandi istituzioni dicevano ai Paesi piccoli: non potete proteggere i piccoli coltivatori. Così tutta la produzione finiva nelle mani dei grandi gruppi. E gli agricoltori senza più lavoro che cosa fanno? Vanno nelle città dove vivono nelle baraccopoli. È progresso questo? Ora c’è la possibilità di creare sistema più equilibrato. Era un’economia guidata dall’avidità, che ignorava i limiti delle risorse naturali e il rispetto della natura. Ora c’è la possibilità di creare un sistema più saggio, basato sui valori positivi dell’uomo».

Un sistema guidato ancora dagli Usa?
«No, perché gli Stati Uniti escono molto indeboliti dalla crisi. E perché la soluzione deve essere trovata da Cina, India, Europa».

Ma la Cina occupa il Tibet...
«Nel mio ultimo saggio dimostro come sia anche nell’interesse della Cina trovare una soluzione condivisa in Tibet. Il problema è che il governo di Pechino è impaurito e non vuole rischiare. Purtroppo è sempre più influente, anche qui negli Usa. Le grandi tv americane, ad esempio, non mi invitano più in trasmissione, perché difendo il Dalai Lama e temono le ritorsioni di Pechino.

Vuoi creare una Disneyland in Cina? Allora l’Abc non deve dare voce a chi difende il Tibet».

E questo non la turba?
«Certo non mi fa piacere; ma sono convinto che alla fine il buon senso prevarrà».

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