La critica televisiva? Ha cambiato canale

A raccontare splendori ed errori del piccolo schermo non sono più grandi giornalisti-letterati ma professori o cronisti Mentre gli intellettuali sono passati ad altri media. Un saggio sul difficile compito di giudicare la "cattiva maestra"

La critica televisiva? Ha cambiato canale

Adesso che la televisione è diventata l’ombelico del mondo, la critica televisiva è in via d’estinzione. Anemica, esangue, più integrata che apocalittica. La stagione dorata delle migliori firme della letteratura e del giornalismo messe a far da sentinelle al piccolo schermo per sorprenderne eccessi e censure, arroganze e germi dei nuovi usi e costumi, è finita per sempre. Giovannino Guareschi e Achille Campanile, Luciano Bianciardi e Sergio Saviane, tanto per citare solo alcuni di quei geniacci, s’inventarono un mestiere, un genere giornalistico più vicino al gioiello artigianale che al prodotto seriale, tipico delle rubriche a cadenza fissa.

Era un giovedì sera del dicembre 1955 quando, anticipando la sua uscita dal giornale di qualche ora, il leggendario direttore della Stampa Giulio De Benedetti si ritrovò nel centro completamente deserto di Torino, cinema, caffè, ristoranti, tutto chiuso. Cosicché, all’unico frettoloso passante, lo sbigottito Gidibì chiese il perché di tanta desolazione. «Ma come, non lo sa? In tv danno Lascia o raddoppia?». «Ah, il telequiz», si riprese lui. «Stasera il campione dovrà rispondere alla domanda da 5 milioni; anzi, se non mi sbrigo, me la perdo anch’io. Buonasera». Arrivato a sua volta a casa, il direttore della Stampa telefonò in redazione e ordinò di preparare un titolo a nove colonne sul quiz di Mike Bongiorno. Ma per un titolone così serviva qualcuno che scrivesse il pezzo e quindi guardasse la trasmissione. Quel qualcuno fu Ugo Buzzolan, fino allora titolare della critica teatrale del quotidiano torinese. Quella televisiva, difatti, non esisteva. L’elettrodomestico che, pur restando un bene di superlusso per pochissimi, era in grado di desertificare le città continuava a suscitare la diffidenza quando non il disprezzo di giornalisti e intellettuali. Antidivo assoluto, da quella sera del 1955, per ben trentacinque anni, Buzzolan iniziò a isolarsi in uno stanzino vicino alla tipografia per non disturbare gli altri colleghi e concentrarsi meglio sulla sua «Cronaca televisiva», una nota umile, puntuale e precisa che diede un futuro alla cenerentola delle critiche.

Ora, alla sua epopea, Nanni Delbecchi dedica La coscienza di Mike (Mursia, pagine 155, euro 14), omaggio all’arcinota Fenomenologia di Mike Bongiorno firmata nel 1961 da Umberto Eco, ma soprattutto storia confidenziale e appassionante, fitta di aneddoti e ritratti dei più irregolari tra gli autori della seconda metà del secolo scorso, prestati all’arte di chiosare e contestare lo strapotere della tivù. Chi volesse godersi quelle critiche e quei diari potrebbe recuperare la monografia di Link intitolata Bla, bla, bla - Parlare di televisione che, insieme ad altri interventi, ripubblica alcuni gioielli dei fondatori.
Ma oggi il tramonto della critica televisiva è sotto gli occhi di tutti, e avviene proprio nel momento di massima espansione di quella scatola che, con tutti i suoi derivati, troneggia in salotto e magari in qualche altra stanza. Incontrastata, anzi, più che mai protagonista. Perché lì dentro, in quella scatola, passa tutto, dalla politica al gossip, dalla nascita dei nuovi talenti alla morte delle grandi icone moderne, spesso prima di attecchire sugli altri media, ancora più sofisticati. Se oggi la critica langue, i motivi sono diversi e combinati tra loro. La società dello spettacolo giunta al potere; l’omologazione al pensiero unico della «cattiva maestra» di popperiana memoria; la semplice pigrizia dei giornali, già aggrediti da internet; la scomparsa di quegli scrittori isolati che sapevano catalizzare i lettori-telespettatori.

A volte erano, come li ha ribattezzati Delbecchi, critici «non-televisivi» che, come Gabriele Baldini sul Mondo, giustificavano il ruolo del piccolo schermo solo come veicolo del teatro, dell’opera lirica, del «cinematografo», della letteratura più elementare, perché quella più elevata non era considerata televisizzabile. O critici anticonformisti come Bianciardi, che scriveva sull’Avanti!, Abc, l’Unità senza turarsi il naso, anzi scoprendo «la mediocrità di Mike Bongiorno» tre anni prima di Eco e provocando la reazione stizzita dei suoi compagni di testata e di militanza che definivano la tivù un «frigorifero del cervello». Erano umoristi e scrittori surreali come Campanile, caposcuola «di uno stile che spazza i confini dei generi, smonta le regole, capovolge e parodia tutto ciò che si prende troppo sul serio» annota Delbecchi, fornendo subito un esempio del campanilese: «Si ha l’impressione che la televisione sia stata inventata, sì, ma che ancora non sia stato inventato il modo di usarla». Erano soprattutto critici apocalittici, alla Pasolini, che imputavano a quella scatola tutte le colpe delle disgrazie dell’Italietta mezza analfabeta del boom, quasi parafrasando un celebre detto con una nuova versione: piove, tivù ladra. Erano spiritacci senza guinzaglio, imparentati con la satira come Saviane, umorista e iconoclasta dotato di «colpo d’occhio fulmineo e dalla vis comica sorgiva», non a caso inventore della definizione di «mezzibusti», ai quali non risparmiava le frustate: «Bastava guardarli al telegiornale i De Luca, i Pasquarelli, i Vespa e a chiunque veniva spontaneo associarli ai mezzibusti del Pincio, lo stesso occhio, immobile per la paura di dire una parola di troppo». Infine c’erano i critici saggi, ancora letterati prestati alla televisione come Oreste Del Buono. E come Beniamino Placido, che abbandonerà la sua rubrica «A parer mio» su Repubblica dopo otto anni, licenziando La televisione col cagnolino, libriccino scritto in polemica con gli snob del suo stesso giornale, per i quali la Tv aveva una sola, indiretta, utilità: bastava parlarne male per sentirsi subito più intelligenti.

Quella scrittura, quella malizia e quella irriverenza difficilmente torneranno. Ora i cronisti prevalgono sugli scrittori, i cacciatori di gossip sugli autori: una genìa che Saviane non esiterebbe a definire «mezzibusti dell’informazione», «ruminanti del video». Se vuole sopravvivere, oggi la critica televisiva deve diventare multimediale, multipiattaforma, interconnessa. Deve servirsi dei blog, dei social network, dell’intervento teorico che travalica il monitoraggio quotidiano. Ma se sul web possiamo inventarci tutti critici senza esserlo, la complessità della televisione richiede studi, documentazione, approfondimenti. È la strada di Aldo Grasso, il critico-professore al quale è riuscito «il piccolo prodigio di essere contemporaneamente apocalittico e integrato, spauracchio e testimonial della coscienza mediatica».

E forse lo studio - ma ci vorrebbe un’altra vita a disposizione - è l’unica via per applicare davvero il prezioso suggerimento di Placido: «Prendere sul serio la televisione si può, a patto di non prendere troppo sul serio se stessi».

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