Coronavirus

"Non si può vivere così". Gli addetti alle mense dei nidi lasciati senza stipendi

È decisamente tragica la situazione di cuochi e addetti mensa di asili e scuole dell'infanzia, assunti con contratti part time, senza lavoro da marzo e privi di qualsiasi forma di sostegno al reddito.

"Non si può vivere così". Gli addetti alle mense dei nidi lasciati senza stipendi

Mentre l’Italia si prepara a ripartire sperando nel decreto Rilancio, che allarga la platea di italiani posta fuori dal radar degli aiuti, resta un’enorme fetta di lavoratori rimasti senza lavoro e senza sussidi. È questo il caso dei dipendenti delle società municipalizzate impiegati come forza lavoro negli asili nido e nelle scuole dell’infanzia. Cuochi, inservienti, collaboratori, tutti lavoratori atipici con contratti ridotti a tempo indeterminato stagionale da una o tre ore giornaliere. A loro non spetta il reddito di cittadinanza, non spettano i 600 euro di marzo e neanche i mille euro dell’ultimo decreto legge. Non solo. Non hanno nemmeno ricevuto la cassa integrazione al 60% che in ogni caso, qualora arrivasse, verrebbe ulteriormente decimata dall’aliquota Irpef al 23%, portando nelle tasche di questi lavoratori cifre che rasenterebbero il ridicolo. Eppure, nonostante offrano un servizio fondamentale per la comunità accudendo e alimentano i più piccoli mentre i genitori sono al lavoro, in tempo di Covid-19 questi cittadini sono stati dimenticati e vivono nell’angoscia, in attesa di risposte da parte di uno Stato che sembra non sapere nemmeno che esistono.

Rita è una di queste persone. Lavora come cuoca in un asilo nido con un contratto part-time. Al telefono scoppia subito in lacrime: “Oggi è una giornata tosta – racconta singhiozzando – perché ho appena ricevuto la busta paga: c’è scritto zero. Zero!”.

La storia di Rita è una di quelle vicende sfortunate che abbiamo sentito tante, troppe volte durante questa emergenza. Rimasta sola con due bambini dopo aver lasciato il marito tossicodipendente, lotta come può in un mondo ostile: lavorando e crescendo i figli in condizioni difficili. Sempre con la schiena dritta, tirando avanti a stento, nel 1986 chiede aiuto allo Stato facendo domanda per avere una casa popolare. Purtroppo la sua richiesta viene smarrita e nel 2012, ripresentata la domanda, si vede catapultata nella parte bassa della graduatoria per le assegnazioni. Intanto i figli crescono e Rita, dopo aver vissuto in una roulotte messa a disposizione dal Comune di Roma, nella sua ostinata ricerca di quella serenità che non arriva mai, trova un compagno con cui va a convivere in un garage adibito a monolocale.

Purtroppo, come se i suoi problemi non fossero già abbastanza, esplode la pandemia che le toglie il lavoro. Negli stessi giorni, dopo una lite di coppia, perde anche il tetto sopra la testa. Così si trova di nuovo sola, per strada nel pieno del lockdown. “Mi sono ritrovata di notte, al freddo, da sola, senza sapere dove andare. Con l’obbligo di restare chiusi in casa e io una casa non ce l’ho”. Da allora Rita si arrangia come può, dormendo a casa di amici o da sua madre dove, in un appartamento di 80 metri quadrati, vivono già in sei con un solo bagno e il rischio di tornare per strada è sempre dietro l’angolo.

Ad aiutarla con la spesa c’è Letizia, una volontaria della Croce Rossa che con grande spirito di iniziativa ha creato una piccola organizzazione attraverso la quale (in maniera assolutamente trasparente e anonima) mette in contatto persone generose con chi ha bisogno di aiuto. “Nessuno resti solo” è il nome del gruppo Telegram con cui Letizia, in appena quindici giorni, è riuscita ad aiutare da sola trentacinque famiglie a cui porta la spesa a casa. Ma la cura e i sussidi a sostegno di chi arranca non possono essere affidati alla buona volontà di singoli individui che, seppur generosi come Letizia e la rete di persone che si sta organizzando su tutto il territorio nazionale, hanno grossi limiti di tempo e risorse e non possono far fronte ai bisogni di una fetta enorme della popolazione italiana lasciata in disparte.
Rita conosce bene questa situazione. Attraverso un gruppo Facebook ha scoperto migliaia di lavoratori con contratti simili al suo, tutti impiegati negli asili e nelle scuole dell’infanzia. Insiste per farmeli incontrare. “Ci devi parlare – si impunta – non è possibile vivere in queste condizioni e lo devi vedere con i tuoi occhi”.

L'appuntamento è all’esterno di un anonimo asilo nido, sono una trentina, di diverse cooperative. Molti di loro hanno in mano dei cartelli, altri invece la busta paga dell’ultimo mese. “Busta paga zero”. Zero è il mantra di tutti, senza stipendio da quando il Presidente del Consiglio ha chiuso le scuole; sanno che l’anno scolastico è ormai terminato e nella migliore delle ipotesi non torneranno a lavorare prima di settembre. “Queste sono le mie buste paga. L’ultima, di tre mesi fa, è di 260 euro – spiega Roberta – mentre le successive riportano la cifra zero. E non si sa fino a quando resteremo a casa”. Tutti questi lavoratori hanno qualcosa da dire: “Fateci lavorare, – chiede Daniela - qualsiasi cosa va bene, anche pulire le strade o essere impiegati in qualsiasi altro servizio”. Per chi si trova in situazioni simili, il Covid è stato l'ultima mazzata. La malattia ha causato una strage ma Carla ci tiene a precisare un punto: “Noi vorremmo solo un po’ di attenzione. Per otto mesi l’anno lavoriamo nelle scuole con i bambini curandoli come se fossero i nostri figli.

Ora chiediamo solo un po’ di attenzione”.

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