Cronache

Adesso chiedete scusa a quei tre poliziotti

La sentenza della corte d'Assise sul caso Cucchi è la fine di un incubo per tre agenti della polizia penitenziaria

Adesso chiedete scusa a quei tre poliziotti

«Anche di fronte all'evidenza della tortura e dell'omicidio i responsabili, quando sono figure dello Stato, possono sfuggire alla giustizia». Questo il commento di Gianluca Peciola, vendoliano, al verdetto sul caso Cucchi con la condanna dei sei medici del reparto di medicina protetta del «Pertini» e l'assoluzione dei tre agenti penitenziari. Ancor più pesanti le affermazioni dei familiari dello sventurato giovane e del loro legale: ma se il loro sfogo trova giustificazioni negli animi esacerbati dalla tragedia, difficile trovarne una per chi ancora insiste nell'attribuire la morte di Cucchi (l'aula del tribunale ne era piena ed echeggiava del loro grido di: «Assassini! Assassini!») alle percosse, alle «torture» inflittegli dagli «sbirri». Assassini, appunto, che avrebbero dovuto pagare le loro colpe, mentre la corte li ha mandati assolti perché non ci sono prove - nemmeno sul corpo, pur sottoposto a minuziosa autopsia - che essi abbiano usato violenza sul detenuto.

A margine delle reiterate accuse ­«essendo 'evidenti' torture e omicidio Cucchi non è morto per colpa medica» - sono stati invocati dagli stessi che gridavano «Assassini!» comportamen­ti più consoni al vivere civile nel rispetto delle sofferenze di quanti, in questa vicenda giudiziaria, si sono trovati coinvolti. Ebbene, fra questi si contano anche i tre agenti della Polizia Penitenziaria. Per i quali la sentenza emessa dalla terza corte d'Assise di Roma ha rappresentato «la fine di un incubo». Costituito non solo dalla vicenda processuale, che incubo resta anche per chi sa d'essere innocente, ma dalla campagna - condotta con la complicità di parte degli organi di informazione - intesa a sancire che la causa della morte - anzi: dell'assassinio - di Stefano Cucchi risiedeva nel «pestaggio», nelle «torture» per mano degli agenti. Bene, il vivere civile nel rispetto delle sofferenze dei protagonisti di simili vicende pretenderebbe allora che chi quella campagna animò e quanti tennero bordone, alle guardie Nicola Menichini, Corrado Santantonio e Antonio Dominici chiedessero scusa.

Riconoscendo, in nome del personale decoro e della onestà intellettuale, di essersi sbagliati.

Massacrando, loro sì, tre innocenti.

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