Bella, elegante e fru-fru. Ma non dite che l'Italia è gay

Siamo davvero il Paese più gay al mondo, come scrive sul New York Times Frank Bruni? Le pezze d'appoggio esibite, per la verità sono discutibili: siamo il paradiso dell'abbigliamento maschile, geograficamente rassomigliamo a uno stiletto, nel senso del tacco a spillo, i lampadari veneziani evocano fantasie da Gay-Pride, il David di Donatello farebbe la gioia pubblicitaria di una palestra homo. Frank Bruni è americano, anche se il (...)

(...) cognome tradisce antenati di casa nostra (casa, non cosa, sia chiaro) e quindi va scusato: scambia il cattivo gusto per mascolinità e la bellezza per gayezza, pensa che più la vita è colorata e meno è eterosessuale.

È un errore concettuale come ha ben spiegato Franco Zeffirelli a Walter Mariotti nell'intervista che chiude il bel libro curato da quest'ultimo e non a caso intitolato Bellezza (Arc Vision Edizioni): «L'etimologia della parola gay mi infastidisce. Nasce dalla cultura puritana, l'idea cioè che per bilanciare questa anomalia, devi essere simpatico, gaio. E così in America vediamo questa roba da carnevale, si truccano come pagliacci, tutti felici e allegroni, sei così spiritoso e divertente che ti chiamo gay. Una specie di attenuante. Ma si può? Dire a Michelangelo che è gay? A Leonardo? Andiamo, essere omosessuali significa portare un grave peso di responsabilità, scelte difficili: sociali, umane e di cultura».

Il fatto è che l'Italia è uno strano Paese, già difficile da capire per chi ci è nato e ci vive, figuriamoci per chi viene da oltreoceano. Enunciata la tesi che «spiritualmente» siamo gayssimi, Bruni non riesce a spiegarsi l'antitesi che quanto a riconoscimenti civili siamo, stando alle denunce delle organizzazioni omosessuali, in fondo alla classifica, dietro persino all'Albania e alla Bulgaria. Come sintesi prova ad abbracciare l'ipotesi di una doppia morale, pubblica e privata, sui cui preme il retaggio cattolico e la presenza dello Stato vaticano. C'è del vero, ma non è sufficiente.

Facciamo un passo indietro e torniamo a quell'aristocratico romano che nell'Italia del secondo dopoguerra, seccato dalla petulanza con cui la moglie di un diplomatico statunitense lo perseguitava a proposito della amoralità degli italiani, rispose in perfetto inglese: «Mia cara signora, quando voi vivevate ancora sugli alberi e vi dipingevate la faccia, noi eravamo già froci». In fondo l'Ars amandi l'ha scritta Ovidio, mica Guy Talese, e fra Settecento, Ottocento e Novecento la dolcezza del vivere e la libertà dei sensi gli anglosassoni e i mitteleuropei sono venuti a cercarla in Italia, e insomma sul tema c'è poco che da oltre confine gli altri ci possano insegnare e/o possano capire.

È un percorso plurisecolare, e man mano che l'Italia dei Comuni e delle Signorie cedeva il passo alla dominazione degli Stati nazionali stranieri, si cominciò a verificare il caso paradossale di un Paese conquistato che continuava a sedurre i suoi conquistatori. C'era tutto in Italia, e troppo di tutto se le truppe di Carlo VIII invaderanno la penisola al grido «Nous conquerons les Italies», plurale, non singolare, e quel surplus stava per un continuum che dall'antichità classica arrivando al Rinascimento l'aveva popolata di città e palazzi, marmi e arazzi, bellezze fisiche e naturali, all'ombra di un clima senza eguali. Nel Settecento, quando la decadenza, politica e sociale, raggiunse l'acme, il Grand Tour della migliore aristocrazia europea non trovò di meglio che fare di un'Italia non ancora nazione la patria designata dell'educazione intellettuale e sentimentale, come se solo lì fosse possibile un'educazione alla bellezza estetica ed etica allo stesso tempo.

Se non si capisce questo, non si capisce niente e si prendono lucciole omosessuali per lanterne eterosessuali, si confonde la permissività con la libertà dei costumi, il puritanesimo con il dogma, la licenza con la trasgressione. Gli italiani sono sempre stati più avanti della classe politica chiamata a rappresentarli e sono sempre stati recalcitranti a codificare i comportamenti in norma giuridica. Quando lo hanno fatto è perché non se ne poteva più fare a meno.

In fondo, eravamo da poco una Repubblica quando Mario Scelba, ministro degli Interni, lanciò la guerra contro «l'uso da parte di giovani bagnanti del cosiddetto slips» e giunse persino a dettarne le misure in una circolare. La guerra venne combattuta e persa a Capri, dove Scelba, appena sbarcato, si imbattè nel ballerino tedesco Julius Spiegel, caprese ad honorem, con le sue mani ricoperte di anelli, una camicia di seta rossa, uno scialle bianco sulle spalle e la papalina di lana sulla testa: «È un esperto di danze giavanesi» gli disse imbarazzato il sindaco. In piazzetta Scelba si ritrovò avvolto da un proliferare di teste ossigenate maschili, gambe femminili che sbucavano trionfanti da pantaloncini tagliati ad hoc, catene, catenelle e pendagli. Alla «rivolta della mutanda», inscenata da un codazzo di giovani sotto il suo albergo, partecipò anche il diciassettenne Fabrizio Ciano, il figlio di Edda e di Galeazzo, a dimostrazione che lo slip non era né fascista né antifascista, di destra o di sinistra, ma patrimonio nazionale. Capri era allora il regno di Francesco Caravita di Sirignano, detto Pupetto, principe e nullafacente.

Pilota di auto sportive, si era messo in testa di rinverdire sull'isola gli allori della Targa Florio. A uno spettatore che, pensando di averlo riconosciuto, democraticamente gli gridò «Ma tu, si' Pupetto?», risponderà: «No, so pu' u' culo». Ma in che senso è difficile da spiegare a Frank Bruni.

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