Bunker, ossa e dolore: in un libro il volto nascosto della guerra

Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore, la prefazione di Fausto Biloslavo al libro "Alpi, teatro di battaglie (1940-1945)", pubblicato per i tipi di Hoepli

Bunker, ossa e dolore: in un libro il volto nascosto della guerra

Il mosaico di teschi nella cappella che ricorda una delle tante stragi dimenticate di Tito in Slovenia, pubblicato nelle prime pagine di questo libro, è il simbolo dell’orrore di ogni guerra. Dopo le battaglie, sulle Alpi e a qualsiasi latitudine, restano per anni, talvolta per sempre, le ossa dei soldati che si sono sacrificati da una parte e dall’altra del fronte, giusta o sbagliata. All’inizio degli anni settanta sul Monte Nero, oggi in Slovenia, spuntavano ancora quando la neve si scioglieva e smuoveva i ghiaioni le ossa dei nostri alpini, che durante la prima guerra mondiale si sono immolati per conquistare la vetta. Mio padre le raccoglieva in rispettoso silenzio trasformando la gita con il Club alpino italiano in una specie di pellegrinaggio del ricordo. Per me era la prima volta che intravedevo l’orrore dei conflitti. Molti anni dopo attratto fatalmente dai reportage di guerra ho trovato in Uganda gli altarini di teschi della follia del sanguinario Idi Amin, che ha massacrato il suo popolo. Non dimenticherò i resti avvinghiati di una madre che cercava di proteggere il figlio dalla sventagliata di mitra tirati fuori dalla prima fossa comune di Srebrenica scoperta dopo il massacro. A Sinjar, in Iraq, i teschi con i fori dei proiettili alla nuca delle vittime yazide, compresi bambini, dimostravano la furia genocida dello Stato islamico.

Le guerre sono sempre rappresentate dal cumulo di ossa di chi le ha combattute o subite, come i civili, ma dei conflitti resta anche altro, che solo in apparenza è meno drammatico. Bunker, gallerie, postazioni fortificate in cemento e acciaio, mimetizzate o scavate nella roccia, sono muta testimonianza tramandata ai posteri. I conflitti lasciano sempre un segno, una cicatrice, non solo nell’animo e nelle carni, ma pure nei paesaggi più belli e affascinanti. La natura tende ad avvolgere, inghiottire, nascondere i simboli dei terribili scontri calmando gli spiriti dei caduti, ma non del tutto. Quasi volesse ricordare ai vivi cosa significa la furia, maestosa e terribile, della guerra.

“Alpi - teatro di battaglie - 1940-1945” di Alessio Franconi fotografa perfettamente questi “monumenti” della seconda guerra mondiale tornati alla natura, oramai svuotati per sempre della valenza bellica per lasciare spazio al ricordo.

Un’inevitabile seconda tappa iniziata con il primo libro “Si combatteva qui!” sui luoghi dove è stata consumata nel sangue la Grande guerra. Indro Montanelli, che per me è stato un maestro ed Ettore Mo, che ho conosciuto durante i reportage hanno fatto parte di quella classe di giornalisti che vanno a cercare le notizie sul campo. E la loro bravura e determinazione, come voleva la leggenda, si misurava anche dalla suola delle scarpe, quanto era consumata e bucata a furia di camminare per portare a casa il pezzo. L’autore fa propria questa usanza dei migliori reporter marciando in lungo e in largo attraverso le Alpi alla ricerca dei luoghi perduti della seconda guerra mondiale. E offrendo al lettore la chicca dei possibili percorsi da ripetere per vivere dal vero le emozioni trasmesse dal libro.

In gran parte luoghi a lungo dimenticati in nome del politicamente corretto o perché sono passati agli onori della storia battaglie epiche in altri continenti come El Alamein e disastrose disfatte raffigurate dalla tremenda ritirata di Russia. Sulle Alpi con i francesi o nella Slovenia costellata di massacri da ambo le parti si sono combattute aspre battaglie, che rivivono in queste pagine. Grazie all’originalità fotografica di Alessio Franconi, che scatta sempre senza nessuna presenza umana attorno. L’immagine si concentra sui resti silenti delle fortificazioni invecchiate dal tempo, ma che sono ancora capaci di trasmettere i ricordi dei furiosi scontri o delle stragi di allora. Talvolta gli scheletri di cemento sono ancora bucherellati dai proiettili di mitragliatrice o dalle schegge. Franconi si apposta fra i monti e nelle boscaglie per ritrovare il momento giusto, la luce o la nebbia giusta per resuscitare i bunker come se fossimo ancora nel 1940. E si infila nei cunicoli della linea Maginot o scende le scale a pioli ferrate che ti portano nelle viscere della terra dove gli uomini si barricavano come topi per resistere e reagire alla valanga di fuoco dell’artiglieria.

La seconda guerra mondiale torna alla luce non solo con le immagini, ma grazie alle parole dei diari di chi l’ha combattuta, come il nonno dell’autore.“Muli squarciati, soldati dell’artiglieria caduti accanto, un infinità di cose buttate con lo scopo evidente di alleggerirsi e passare oltre [il fuoco di sbarramento n.d.a.] il più presto possibile, qui si sente veramente la tragicità della guerra” scriveva Giovanni Drago durante l’avanzata in Francia al Lac de color nel Vallon de Savine. Le possenti fortificazioni della linea Maginot, che si estendeva fino al mare, hanno solo rallentato l’offensiva e la momentanea fine della Grandeur già stritolata dai tedeschi. I bunker, però, tornano a parlare: “Continuiamo la lotta all’interno, ma il nemico scaglia delle bombe a mano nelle feritoie che vengono a cadere ai piedi dei tiratori” è la testimonianza del comandante Lanteri dell’esercito francese. Sfogliando le pagine del libro sulla guerra di ieri mi tornano alla mente quelle di oggi con lo stesso groviera di postazioni degli uomini in armi, che come formiche sperano di resistere alla fine. Le fitte trincee dei talebani che percorrevano da una parte all’altra la piana di Shomali, ultima difesa prima di Kabul, prima incenerite dal cielo dai B 52 americani in una tempesta di fuoco e poi travolte da uno sciame di carri armati dei mujaheddin che combattevano contro gli integralisti. O la grande galleria di una vecchia ferrovia a ridosso dell’aeroporto di Mosul, gigantesco rifugio e campo di addestramento sotterraneo delle bandiere nere dello Stato islamico conquistato durante la liberazione della “capitale” del Califfato. Oppure la cintura di trincee serbe sulle colline di Sarajevo diventate oggi percorso “turistico”, come l’ingresso del tunnel sotto l’aeroporto unica via nella bolgia della guerra etnica per raggiungere Sarajevo assediata e ridotta alla fame. Nel 1994 lo avevo percorso sotto il martellare dei mortai che facevano tremare le pareti.

Cicatrici materiali delle guerra, che sembrano non scomparire mai e che Franconi ha rintracciato lungo le Alpi. Il libro sfiora anche la tragedia delle foibe, non solo quelle delle vittime italiane, ma pure dell’immane eccidio dei prigionieri di guerra sloveni, croati e serbi, che avevano combattuto pure contro i nazisti, massacrati per ordine di Tito quando la guerra era finita da settimane. Una storia celata per tanto tempo dai vincitori, che meriterebbe un volume a parte nell’ideale trilogia di questo ricordo fotografico del Novecento segnato da due guerre mondiali. Un passato che sembra lontano, ma che potrebbe sempre riaffacciarsi come i dieci anni della sanguinosa implosione della ex Jugoslavia.

Ogni volta che torno a casa dopo un reportage di guerra in paesi lontani prendo il treno diretto a Trieste. E quando i binari costeggiano il mare della mia città riaffiorano, come dei flash, i momenti più drammatici vissuti in prima linea.

Poi guardo il golfo del capoluogo giuliano, che potrebbe essere qualsiasi luogo della nostra nostra bellissima Italia e mi rendo conto di quanto siamo fortunati a vivere da 70 anni in pace. Per questo il senso del libro si racchiude tutto in una frase dell’autore: “Viaggiare, ricordare ed esplorare per non ripetere” gli orrori della guerra.

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