Il mondo non può restare inerme e chiudere gli occhi davanti a quello che sta succedendo in Venezuela. Dobbiamo avere il coraggio di prendere decisioni che favoriscano la transizione verso la democrazia. Condannare è giusto, ma non basta. È necessario agire per cambiare le cose. Il mese scorso, gli Stati Uniti hanno applicato sanzioni economiche, congelando beni e proibendo al presidente Maduro e ai funzionari venezuelani di compiere transazioni economiche. L'Europa, invece, è rimasta indietro. Non ha imposto misure restrittive, individuali e selettive, contro i responsabili dell'attuale repressione. Anche l'Ong Human Rights Watch ha chiesto pubblicamente delle sanzioni. Chi non rispetta la democrazia e i diritti umani non può restare impunito.
Il Venezuela sta attraversando una crisi senza precedenti che si protrae da diversi anni: una crisi politica, istituzionale, sociale, economica e umanitaria. Invece di ascoltare il suo popolo, il presidente Maduro ha violato il sacro principio della separazione dei poteri e ha rafforzato il suo regime autoritario per instaurare una vera e propria dittatura. Non dobbiamo avere paura di dirlo. Perché è tipico di un regime dittatoriale imporre un'Assemblea nazionale costituente, usurpando i poteri dell'Assemblea nazionale, unica e legittima espressione della volontà del cittadino, essendo stata eletta nel dicembre 2015 col voto di 14 milioni di venezuelani.
Negli ultimi decenni America Latina e Caraibi hanno fatto enormi passi avanti verso la democrazia e lo Stato di diritto. In Venezuela, al contrario, assistiamo a un processo inverso.
Oggi i venezuelani devono far fronte a una penuria di medicinali e risorse necessarie per l'assistenza sanitaria, oltre all'insufficienza di alimenti ed altri prodotti fondamentali per un'alimentazione adeguata. Sono ricomparse malattie che sembravano debellate, come la difterite, che non si manifestavano da più di 20 anni.
La situazione economica è grave, segnata da iperinflazione (720% nel 2017, in aumento fino al 2.000% nel 2018) e contrazione del Pil (-18% nel 2016, -7% previsto quest'anno). Questo non dovrebbe succedere nel Paese che possiede le più grandi riserve petrolifere del mondo. La dittatura venezuelana è un problema per il Paese, per le regioni vicine, per il continente e per il mondo intero. Ecco perché dobbiamo agire in fretta. A fine agosto, a Lima, dodici Paesi del continente americano hanno approvato una dichiarazione sulla crisi in Venezuela, prendendo la coraggiosa decisione di non partecipare al vertice Ue-Celac che avrebbe dovuto tenersi il 25 ottobre a El Salvador. Il 6 settembre ho incontrato a Bruxelles gli ambasciatori di questi dodici Paesi, e ho annunciato pubblicamente che non avrei partecipato al vertice Ue-Celac. Il 20 settembre, la presidenza del Celac ha comunicato formalmente all'Unione Europea la decisione di annullare il vertice.
Ciò che accade in Venezuela si ripercuote sulle regioni limitrofe. La Colombia deve far fronte a un flusso enorme di rifugiati che attraversano il confine, ogni giorno, alla ricerca di cibo, medicinali e pace. Soltanto nel mese di luglio, 125mila visti sono stati concessi a cittadini venezuelani. Il Brasile, con i suoi duemila chilometri di confine con il Venezuela, vive la stessa realtà. Il Cile, a circa cinquemila chilometri di distanza, ha rilasciato a luglio novemila visti ai venezuelani. Anche l'Europa è fortemente coinvolta. Nel mese di giugno, le richieste di protezione internazionale giunte da chi fugge dal Venezuela erano già più numerose di quelle registrate in tutto il 2016.
Dall'arrivo di Chávez al potere nel 1999, più di due milioni di persone hanno abbandonato il Venezuela. Dobbiamo proteggere la diaspora venezuelana in Europa, che coinvolge quasi 600mila persone, da una dittatura che non paga le pensioni, non rinnova i passaporti e arresta arbitrariamente chi rientra nel territorio venezuelano.
Esiste anche un rischio geopolitico, a livello continentale e globale. Il Venezuela, con le sanzioni imposte dagli Stati Uniti, è soffocato economicamente, non potendo ricavare denaro dai mercati finanziari del Nord America. Paesi come Cina e Russia, che non hanno mai avuto un ruolo particolare nella regione, approfittano della situazione per diventare più influenti, fornendo prestiti al governo e alle società statali venezuelane.
Il Parlamento europeo continuerà a monitorare attentamente questa situazione. Negli ultimi tre anni abbiamo già adottato cinque risoluzioni chiedendo: l'arrivo di aiuti umanitari; la liberazione di prigionieri politici; il rispetto dei poteri dell'Assemblea nazionale e un calendario elettorale. La settimana scorsa, il Parlamento europeo, in una relazione sui rapporti con l'America Latina, ha chiesto che l'Ue applichi delle sanzioni. Entro la fine di quest'anno organizzeremo una conferenza sulla democrazia in Venezuela, dando voce a tutti coloro che vengono perseguitati dal regime. Non si tratta più soltanto di opposizione, ma anche di persone che condividono l'ideologia del Chavismo ma che, al tempo stesso, hanno denunciato la deriva dittatoriale di Maduro. Mi riferisco, ad esempio, alla procuratrice generale del Venezuela, Luisa Ortega. Destituita dall'Assemblea nazionale costituente, e costretta a lasciare il Paese per non essere arrestata. Il 26 ottobre, in plenaria a Strasburgo, verrà annunciato il vincitore del premio Sakharov per la libertà di pensiero 2017. Un premio che rende omaggio agli individui o alle organizzazioni che si sono impegnate per la difesa dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Tra i candidati figura l'opposizione democratica venezuelana, rappresentata dall'Assemblea nazionale, dal suo presidente Julio Borges e da prigionieri politici come Leopoldo López.
Antonio Tajani*
*Presidente del Parlamento europeo
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