Dopo mesi di proclami da campagna elettorale in cui Matteo Salvini dava come imminente un cambiamento radicale dell'Unione europea e del suo modello organizzativo, è finita con un Europa che mai come oggi è a trazione franco-tedesca. Con l'establishment - quello con la «E» maiuscola - che governa sia la Commissione Ue che la Bce, adesso in mano a Ursula von der Leyen e Christine Lagarde. Praticamente come dire Angela Merkel e Emmanuel Macron, due che se potessero il governo italiano lo farebbero brillare con il C4. E con l'unica poltrona di peso incassata dall'Italia - la presidenza del Parlamento europeo - che va al dem David Sassoli, con i voti contrari della Lega mentre il M5s ha lasciato ai suoi parlamentari libertà di coscienza.
Insomma, l'autoproclamato «governo del cambiamento» che doveva spezzare le ossa all'Europa e dettare l'agenda della nuova Ue, si ritrova non solo a non toccare palla sulle nomine, ma pure a «subire» l'onta di vedersi imporre un italiano per così dire «non gradito».
Non un dettaglio nei delicati e ampollosi equilibri della diplomazia di Bruxelles. D'altra parte Giuseppe Conte è uscito dai giochi dopo il veto sull'olandese Frans Timmermans, prima sostenuto da Palazzo Chigi e poi ripudiato nottetempo per fare asse con il blocco di Visegrad. Uscito a tal punto che nessuno si è preoccupato di «imporre» all'Italia un presidente del Parlamento Ue considerato politicamente ostile al governo di Roma. Anche con qualche ragione, visto che solo pochi giorni fa Sassoli aveva auspicato un «cordone sanitario» intorno alla Lega.
Non a caso, non è servita più di qualche ora per avere conferma del nuovo clima di «affettuosa» collaborazione tra il Parlamento Ue e Palazzo Chigi. A Sassoli che nel suo discorso di insediamento auspicava il dialogo tra istituzioni europee e Ong («la nostra porta è sempre aperta e lo sarà ancora di più») ha subito replicato Salvini. «Il nuovo presidente del Parlamento europeo, eurodeputato del Pd ed ex giornalista Rai dice che «il Parlamento sarà sempre più aperto alle Ong. Siamo su 2», affonda il vicepremier su Facebook.
Dietro le polemiche da social o da titoli da Tg, però, l'impressione è quella di un'Italia sempre più distante dal tavolo che conta in Europa. Al punto, per certi versi, di fare fatica persino solo a sedersi insieme agli altri commensali. Certo, ieri il collegio dei Commissari Ue ha deciso di non raccomandare al Consiglio di aprire la procedura per deficit sull'Italia. Ma non l'ha fatto per indulgenza, bensì perché - al di là della propaganda gialloverde - l'Italia ha accettato le regole Ue e si è impegnata a non fare manovre in deficit. Allo stesso modo, da oggi si apre la partita per il Commissiario Ue, che andrà alla Lega. Una scelta obbligata dal risultato delle Europee dello scorso 26 maggio, non da altri motivi. E che l'Italia porti a casa un Commissario e un vicepresidente della Commissione Ue è assolutamente il minimo sindacale per un Paese fondatore che conta sessanta milioni di abitanti.
In questo scenario, il dubbio che ha qualcuno persino a via Bellerio - chissà se troppo dietrologo - è che alla fine a Salvini non dispiaccia poi troppo avere in
Europa solo nemici con cui aprire fronti e alimentare polemiche. D'altra parte, è la guerra all'Ue uno dei cavalli di battaglia della propaganda leghista. Come lo è la guerra all'immigrazione. Insomma, purché sia guerra.
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