Me lo ricordo, me lo ricordo eccome, quel martedì 29 dicembre del 1992, con Bettino Craxi seduto nell'ultimo tavolo in fondo della pizzeria Fiammetta, a due passi dall'hotel Raphael, per tanti anni sua dimora romana, che commentava l'anno della sua caduta. Il suo «annus horribilis». Il calvario sarebbe stato ancora lungo, ma «il cinghialone» indomito (per usare il nomignolo che gli affibbiò il compianto Giampaolo Pansa), conoscendo a menadito le vicende italiche, sapeva ormai che la sua fine era arrivata. Uno può pensarla come vuole, può essere stato democristiano o socialista, leghista, comunista o missino, ma nessuno può negare che ci sia qualcosa di drammatico nell'epilogo craxiano. C'è il «pathos» delle tragedia greca, di Eschilo, di Sofocle. C'è addirittura la grandezza dell'uomo che da vivo, parla della sua morte. Disse quel giorno: «Se solo annunciassi l'intenzione di scrivere un libro sulle mie memorie finirei morto impiccato sotto ponte Milvio, come il povero Calvi». Ed ancora: «Parlano come se fossi morto... Mi hanno già seppellito, meno male che ho fatto i buchi nella bara e continuo ancora a respirare... Debbo dire che mi trovo nella singolare e privilegiata condizione di chi, essendo perfettamente vivo, può leggere i suoi necrologi, epitaffi e scritti in memoria...».
Un gigante. Perché davvero Craxi è stato seppellito, rimosso dalla coscienza nazionale, cancellato dalla storiografia ufficiale nella logica di Brenno del «guai ai vinti», già da vivo. Ci sono voluti vent'anni dalla sua morte, per cominciare a liberare la storia dalle meschinerie, dalle scorie, dai calcoli della cronaca di parte. Come avviene per ogni verità che si dimostri scomoda. Perché dare la parola a Craxi, al capro espiatorio, al criminale, equivaleva fare venir meno la retorica di Tangentopoli, ridurre l'epopea giustizialista, a quello che nei fatti è stata: un mero scontro di potere, in cui fu scelto con cura chi doveva salire sul patibolo e chi, invece, doveva essere salvato, nel dopo Yalta. La prova generale dell'uso politico della giustizia, che ha condizionato quasi trent'anni di storia di questo Paese con una lunga fila di feriti e vittime: da Berlusconi, passando per Bossi, fino a oggi, in cui il mirino è puntato, a giorni alterni, verso Renzi o Salvini. Un metodo in cui le carte bollate, gli avvisi di garanzia hanno contato molto più delle scelte politiche. Basta pensare al paradosso - un unicum a livello planetario - che fu messo in scena allora in Italia: dopo la caduta del Muro di Berlino andarono al potere quelli che erano stati sul versante sbagliato. Un'offesa alla storia. E paradosso nel paradosso, lo strumento che fu utilizzato per mettere la classe politica che per 50 anni aveva governato il Paese alla sbarra, fu il reato sul finanziamento illecito ai partiti. Lo stesso reato che appena due anni prima, nell'89, era stato amnistiato, passando in questo modo un colpo di spugna sull'altra faccia della medaglia della politica «sporca» del dopoguerra, cioè i rubli di Mosca.
Ecco perché Craxi doveva essere rimosso, perché l'Italia, purtroppo, spesso dimostra di essere un Paese ingrato: Helmut Kohl che ebbe con i finanziamenti illeciti alla Cdu, più o meno gli stessi guai, in Germania è sempre stato considerato uno statista. Lo dice uno come il sottoscritto, che ebbe con lui rapporti alterni. All'inizio mi soprannominò «raccoglitore di cicche», perché nel massimo fulgore del craxismo, mi aggiravo tra gli esponenti del Psi alla ricerca della battuta di qualche eretico. Quando gli raccontarono che ascoltavo le riunioni della direzione socialista dai tubo dell'aria condizionata nel bagno delle donne, al terzo piano della sede di via del Corso, fece erigere un parapetto per impedirmelo. Addirittura quando scrissi sulla Stampa che per fare carriera nella Rai di allora bisognava frequentare il salotto romano della sua amica Ania Pieroni, mi fece sapere che se mi fossi presentato al Congresso del Psi a Milano mi avrebbe preso a calci nel sedere. Ma Craxi era così, burbero ma al tempo stesso leale, con un grande rispetto per il lavoro del cronista da marciapiede. Nella hall del Raphael, appostati per ore, trovavi il sottoscritto, l'indimenticabile Guido Quaranta o l'ex direttore di Repubblica Ezio Mauro. E l'attesa, bene o male, alla fine veniva premiata con un'intervista, una notizia, una soffiata. Come quel giorno del 1993 in cui mi diede un documento di dodici pagine, divise in sette capitoli, in cui si parlava della finanza anglo-sassone, della riunione sullo yacht Britannia, delle privatizzazioni italiane. Ma l'elemento che più mi colpì era all'ultima pagina, l'epilogo: si pronosticava un governo Prodi. Cosa da non credere in quel momento visto che il Professore, dopo essere stato presidente dell'Iri, almeno apparentemente, si trovava un po' ai margini, aveva solo una rubrica di economia su Raitre. In un'Italia squassata dalle bombe di mafia e dalle inchieste di Tangentopoli, ammetto che presi quella previsione un po' sottogamba. Poi qualcuno mi disse - ma non ho mai avuto conferma - che si trattava di un'informativa dei servizi segreti tedeschi (i nostri erano già passati dall'altra parte) e conteneva, con la saggezza del dopo, una previsione che dopo tre anni si sarebbe avverata. Ma era l'Italia di quegli anni turbolenti dove le congetture sui complotti, i teoremi sui gioielli della nostra economia che facevano gola alla finanza internazionale, non erano solo di Craxi, ma anche di Andreotti, di Forlani. Solo che in quell'atmosfera, quel mondo, che aveva governato fino al giorno prima, perse il diritto di parola. Per anni.
Ne sono stato testimone in prima persona. Nel 1998 feci un'intervista a Craxi per il rotocalco tv Sfide, forse la prima che dall'esilio il leader socialista concesse alla Rai. Ebbe un successo di «share» e il fatto ad alcuni non piacque. Così, per sedare le polemiche, il giorno dopo fui processato su una trasmissione su Raidue con l'accusa di avere intervistato un latitante. Dodici anni dopo, nel decennale della morte, feci un'editoriale al Tg1 in cui ricordai la figura dello statista Craxi tra luci e ombre. Altra montagna di critiche. La verità è che il nuovo regime voleva relegare il nome di Craxi nell'oblio. Voleva consegnarlo allo stesso destino che l'Inquisizione condannò eretici e streghe nel medioevo. Per lui, nel cimitero della storia, doveva esserci solo una tomba senza nome. Seduto su una poltrona al bar dell'hotel Raphael, il 30 aprile del 1992, dopo che la Camera aveva respinto quattro autorizzazioni a procedere e la piazza - orchestrata - era in subbuglio, mi spiegò: «Vogliono un capro espiatorio, una vittima da immolare, da sacrificare. Non cercano la mia sconfitta politica, vogliono il rogo. Se vuoi un precedente rileggiti la Colonna infame».
Appunto, volevano cancellarlo. E non solo il Craxi delle tangenti, ma anche quello che aveva avuto il coraggio di denunciare nell'aula di Montecitorio il 2 luglio del 1992 il sistema di finanziamento illecito di tutti i partiti, quello che aveva avuto la spudoratezza di dire «no» agli americani a Sigonella, quello che dicendo «sì» ai missili di Reagan aveva contribuito a mandare in tilt l'economia sovietica, quello del referendum sulla scala mobile, quello che aveva previsto i limiti di questa Ue nata sui parametri di Maastricht. Insomma, quello che guardava oltre: quello che, a ben vedere, trent'anni fa propugnava una legge elettorale proporzionale con una soglia di sbarramento per spingere i partiti più piccoli ad accorparsi, la stessa di cui si discute oggi. Insomma, di quel personaggio, uomo e statista, bisognava perdere la memoria. E lo volevano cancellato, rimosso, in prima fila a guardarlo bruciare sul «rogo» come le tricoteuse davanti alla ghigliottina, gli stessi eredi del Pci che aveva graziato un anno prima: nessuno mi toglie dalla testa, infatti, che se Craxi fosse andato alle elezioni nel '91 e non nel '92, cioè all'indomani della caduta del Muro e ai primi albori di Tangentopoli, la storia di questo Paese sarebbe stata diversa. Non lo fece «Bettino il rosso» (dal titolo di un articolo di Mauro quando era cronista alla Stampa) per un atto di generosità verso quei compagni che sbagliavano da una vita. I colmi della storia: il Cinghialone che paga la sua generosità. Ma in fondo Craxi era davvero un generoso. Ricordo ancora quella frase piena di amarezza che mi regalò il 2 maggio del 1994 passeggiando al mercato del pesce di Hammamet: aveva già preso la via dell'esilio («tra gli sciacalli e i serpenti», come diceva lui), sapeva che non sarebbe tornato, ma mi negava quella decisione. Poi, a un certo punto, quasi guardando gli anni alle sue spalle, disse: «Quanta gente ha fatto carriera in Rai e nei giornali nel nome di Craxi. Altri, invece, grazie a quel nome sono usciti di galera. Bastava che pronunciassero la formuletta magica: Craxi non poteva non sapere.
E poi i bugiardi: non voglio fare il Pm ma avrei la tentazione di creare una fondazione Wiesenthal per smascherare bugiardi ed extraterrestri. E ancora gli ingrati: tantissimi, ci sarebbe da scrivere un altro libro. Un capitolo moderno, visto che nell'antichità ne sono stati scritti, per capire la natura umana».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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