Non so se fare figli sia un toccasana per l’economia, come ha detto ieri il presidente Napolitano, ma ricordo che - prima ancora del nostro presidente della Repubblica - un uomo politico come Winston Churchill disse, con uno dei suoi colpi di genio: «Il miglior investimento che un Paese possa fare è mettere del latte dentro un neonato». Del resto, pur non essendo un economista, so per certo che avere a casa degli uccellini pigolanti in attesa di cibo (e vestiti e giochi e scuole e medicine) stimola la voglia di lavorare e di produrre ricchezza.
È per questo che da noi, e in gran parte del mondo benestante, ci sono stuoli di lavoratori stranieri - penso soprattutto a tante filippine - che hanno lasciato a casa due, tre, quattro figli piccoli, per trovare lavoro a migliaia di chilometri di distanza e per mandare uno stipendio a casa. Non è la povertà che li spinge a emigrare, perché poveri per poveri probabilmente starebbero a casa loro: è la voglia di far star bene i figli che li invoglia a cercare un maggior benessere, con qualsiasi sacrificio.
Da noi, in una società ricca, è diverso. Sentivo giorni fa un giovane professionista quasi quarantenne (reddito più vicino ai tremila che ai duemila euro al mese) sostenere che non può permettersi di fare figli perché non potrebbe mantenerli. Ove, per mantenimento, si intende scuola privata, tate ammodo, vestitini griffati e vacanze all’estero. Con simili aspettative è chiaro che continueranno a fare figli soprattutto, e paradossalmente, i più poveri, quelli che si accontentano di campare. Non a caso Napolitano ha precisato che una riforma del mercato del lavoro darebbe più sicurezza economica ai giovani, producendo anche una maggiore propensione a riprodursi. Non solo: presidente della Repubblica, governo e italiani sono d’accorso sulla necessità di aumentare gli aiuti alle famiglie, per esempio con più asili nido: una società maggiormente strutturata in funzione dei nuclei con prole renderebbe tutto più agevole.
Però fa tristezza sentire considerare il problema esclusivamente dal punto di vista delle cause e delle conseguenze economiche. Se si trattasse solo di questo basterebbe citare un antico proverbio consolatorio e ottimistico: «Ogni bambino, il suo fagottino»: per dire che ogni neonato porta in dono ai genitori un qualche inaspettato benessere. (Incredibile, ma vero.) Dunque, anche senza mettersi a fare poesia sulla gioia individuale dell'avere figli, dovremo pur dirci che un Paese il quale produca pargoli in numero almeno pari alle automobili di grossa cilindrata è un Paese più vivo e più gioioso.
Soltanto un uomo drammaticamente triste come Giuseppe Ungaretti (Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie) poteva concepire il pensiero «Non mi rimane che rassegnarmi a morire. / Alleverò dunque tranquillamente una prole». Nessuno può davvero credere che allevare una prole sia cosa tranquilla: emozioni a fiotti, ansie e paure, speranze e allegrie infinite, scoperte oltre ogni immaginazione.
Per dirne una, non ho mai avuto tanti scambi sociali, e così insoliti, così inaspettati, come quelli che mi ha provocato il mio bambino cinquenne: scegliendo, a scuola, i suoi compagni preferiti, Nicola sceglie per me e per la mamma anche i loro genitori: persone che probabilmente non avremmo frequentato per libera scelta, ma che sono uno straordinario arricchimento umano e sociale. E così è dimostrato che non si campa solo di spread.www.giordanobrunoguerri.it
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