Ecco perché il Marocco non ha avuto la sua "primavera araba"

Un libro sipega peché il Paese ha mantenuto stabilità e per il momento non sembra minacciato dal terrorismo islamico

Ecco perché il Marocco non ha avuto la sua "primavera araba"

Tra i Paesi arabi che godono di una certa stabilità e non sono, almeno al momento, investiti dal terrorismo islamico che imperversa tragicamente in Siria, Iraq e Libia, sotto le bandiere nere dell’Isis o di organizzazioni analoghe, c’è il Marocco, Stato monarchico retto dal giovane Muhammad VI, figlio di Hassan II. Varie sono le ragioni per cui questo Paese del Maghreb gode di una stabilità ignota ad altre regioni che hanno visto infranto, talvolta tragicamente – si pensi alla vicina Libia del dopo Gheddafi – il sogno della cosiddetta «primavera araba», i cui effetti devastanti sono sotto gli occhi di tutti. Di notevole aiuto per la comprensione della stabilità marocchina c’è un libro di recente pubblicazione destinato sia agli specialisti sia al grande pubblico interessato al mondo arabo e all’Islam: Storia del Marocco moderno, dai protettorati all’indipendenza (Irfan Edizioni, euro 19,50).

L’autore, Stefano Fabei, sostiene non soltanto che Muhammad VI da alcuni anni ha promosso riforme politiche, economiche e sociali, assicurando stabilità al proprio regno e riducendo le possibilità di manovra dei gruppi integralisti vicini ai salafiti, ma che è visto dai sudditi come il garante della pace, anche in considerazione del fatto che alla monarchia non sembrano esserci alternative praticabili, senza cadere nel fanatismo e nell’intolleranza emersi altrove. Per Fabei le ragioni di questa realtà affondano nella storia stessa del Paese e del suo movimento per l’indipendenza conquistata nel 1956. Nel saggio, dopo aver rappresentato l’origine e la caratterizzazione sociale, culturale e religiosa dei movimenti di liberazione marocchini (arabi e berberi), l’autore affronta i rapporti di questi con i regimi fascisti, la sinistra francese e spagnola, i Fronti popolari e altre forze politiche europee nella prima metà del XX secolo. Il libro analizza inoltre con attenzione il rapporto fra Islam, nazionalismo e lotta di liberazione, fra modernità e tradizione.

Dopo la Grande guerra, nel mondo arabo si diffuse un nazionalismo che, alla richiesta dell’autonomia o dell’indipendenza dalla colonizzazione europea, mescolò suggestioni derivanti dal panarabismo e dal riformismo islamico. Il cammino verso la libertà fu diversificato: mentre in Egitto il fallimento del liberalismo condusse al colpo di Stato degli Ufficiali liberi nel 1952, in Algeria negli anni Cinquanta fu necessaria una sanguinosa guerra di liberazione. Se i libici dovettero aspettare il colpo di Stato di Gheddafi nel 1969 per poter parlare di un’effettiva rinascita nazionale, in Marocco, come in Tunisia, le cose andarono diversamente. In questi due protettorati, non colonie come l’Algeria, la politica della metropoli fu parzialmente diversa, più liberale in Tunisia che in Marocco. Retti fino all’indipendenza (1956) da dinastie di sultani esautorate dalla dominazione francese, questi Paesi videro i rispettivi sovrani differenziarsi nella lotta: in Marocco Muhammad V, nonno dell’attuale re, fu un eroe e un simbolo per il popolo e per le organizzazioni nazionaliste; in Tunisia il bey non volle o non seppe porsi alla testa del movimento rivendicativo e infatti fu subito deposto dopo l’acquisizione dell’autonomia.

Il Marocco rivendicò sempre la continuità secolare della sua monarchia dal carattere islamico; la Tunisia diventò una repubblica presidenziale. Due differenti vie per la riconquista della libertà: il movimento nazionalista tunisino fu laico, mentre quello marocchino non rinunciò mai a reclamare le proprie radici religiose, a partire dalla rivolta del Rif dell’emiro ‘Abdel Krim negli anni Venti che avrebbe potuto portare alla nascita di uno Stato musulmano, di una repubblica islamica ante litteram.

Il libro di Fabei, seguendo l’evoluzione del nazionalismo marocchino dall’affermazione del protettorato francese alla vittoria dei patrioti e di Muhammad V, rappresenta, come scrive Massimo Campanini nella Prefazione, «una novità nel panorama editoriale italiano, che, nel complesso, soprattutto in tempi recenti, poco si è interessato della storia moderna e contemporanea del Paese africano». Un pregio del volume è poi la distinzione del nazionalismo e dei suoi esponenti nei territori del Marocco francese da quello nei territori del Marocco spagnolo; ciò non tanto perché si trattasse di un nazionalismo dai caratteri molto diversi, ma perché la letteratura ha spesso minimizzato il ruolo dei nazionalisti operanti nell’area sotto il controllo della Spagna. Questi ultimi ebbero infatti una parte tutt’altro che secondaria nello sviluppare e diffondere la coscienza patriottica.

L’autore rileva poi come la Seconda guerra mondiale abbia costituito uno spartiacque nel cammino verso la liberazione: fu il momento chiave del nazionalismo marocchino, durante il quale si realizzarono e presero corpo quegli elementi che avrebbero determinato gli sviluppi successivi e le modalità stesse dell’indipendenza: adesione del re alla causa patriottica, configurazione dei rapporti tra partiti e classi sociali, rivendicazione esplicita dell’autodeterminazione. Il nazionalismo marocchino fu un movimento composito in cui si intrecciarono gli influssi dell’educazione occidentalizzata delle élite soprattutto urbane con il profondo substrato islamico che avrebbe ispirato i movimenti come l’Istiqlal. I nazionalisti ebbero come obiettivo la liberazione del Paese e questo li portò certe volte a compromessi, per esempio con Francisco Franco nella zona spagnola, o a nutrire simpatie per l’Asse, per Hitler in particolare, in funzione anti-francese.

In sintesi, l’eterogeneità e la complessità del nazionalismo

marocchino evidenzia come il processo di liberazione nei Paesi del Maghreb non possa essere ridotto a poche componenti essenziali, e anche questo serve a comprendere la particolare stabilità dello Stato che ha come capitale Rabat.

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