Cronache

Napoli, la piaga delle baby gang e quei quartieri emarginati

Per le baby gang arrivano i militari, ma a Napoli ci sono ancora quartieri periferici emarginati con una dispersione scolastica in aumento, i servizi sociali sono insufficienti e i fondi comunali tardano ad arrivare a chi si occupa di minori a rischio.

Napoli, la piaga delle baby gang e quei quartieri emarginati

Aggrediscono in branco. Sono tutti giovanissimi, nella maggior parte dei casi minorenni. I loro assalti non sono premeditati. Di solito se la prendono con dei coetanei. Tendono a colpire mossi da banali pretesti, come uno sguardo di troppo, oppure senza alcun motivo apparente. Usano generalmente coltelli, ma non disdegnano altre tipologie di armi. Altrimenti usano le mani. È questo l’identikit dei giovani che stanno terrorizzando e preoccupando Napoli. Ragazzini violenti che non sempre fanno parte di famiglie di malviventi. Bambini che escono con coltellini e tirapugni e in un attimo diventano dei criminali. Analizzando i dati del Dipartimento per la giustizia minorile, emerge che nel primo semestre del 2017 Napoli non deteneva il primato né per i collocamenti in comunità per minori, superata quasi due volte da Milano, né per gli ingressi in istituti di pena minorili e centri di prima accoglienza, dove Milano e Roma la precedono sul podio. Ma su Napoli si è accesa l’attenzione mediatica. Per il susseguirsi di diversi episodi in cui bande giovanili hanno assaltato ragazzi, spesso inermi, riducendoli molto male, e forse solo perché se li sono ritrovati davanti. Arturo, 17 anni, accoltellato il 18 dicembre scorso, ha rischiato di morire sotto i fendenti sferrati da giovanissimi, e oggi ancora parla a voce bassa per il colpo alla gola. Gaetano, pestato ferocemente all’esterno della metropolitana di Chiaiano, non ha più la milza. Ciro, 16 anni, stava rientrando a casa quando è stato massacrato fuori alla stazione della metropolitana “Policlinico”. Sono alcuni dei casi che si sono verificati da dicembre a oggi. Per il fenomeno delle baby gang a Napoli, il capo del Viminale, Marco Minniti, ha impiegato altri 100 militari sul territorio, da utilizzare nell’ambito del programma “Sicurezza giovani”. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha invece espresso la volontà di aprire nuovi centri polifunzionali diurni e ha parlato del tempo pieno a scuola, quando anche arrivarci a scuola è un problema in alcuni quartieri di periferia.

I ragazzi “emarginati” della periferia di Napoli: quando la dispersione scolastica è in aumento, ma anche arrivare a scuola è complicato

“Non mi parli mai”, “Non mi ascolti”. Lo urlano dal palcoscenico interpretando i personaggi del prossimo spettacolo teatrale che porteranno in scena al teatro Piccolo Bellini, “Il cunto del viaggio dei due nobili gentiluomini”. Lo urlano come se volessero far arrivare le voci oltre le mura della sala del Centro Asterix in cui stanno provando, nel quartiere napoletano di San Giovanni a Teduccio, come se volessero farlo sentire a quel mondo esterno che non li ascolta. Fuori intanto si parla di “allarme baby gang”. Mentre loro mettono in scena Shakespeare e Terenzio, la città si interroga sul problema e si chiede quanto Gomorra influenzi i comportamenti dei minori violenti. Sono una decina di ragazzi che non superano i 17 anni di età, vivono nella periferia a est di Napoli, tra i quartieri di Ponticelli, San Giovanni e Barra. Nicola Laieta li coordina col supporto degli educ-attori, educatori che li seguono nel laboratorio teatrale promosso dall’associazione “Maestri di Strada”, in collaborazione con “Trerrote”. C’è chi si trova nel gruppo già da tre anni, chi è arrivato dopo. Tutti sono lì in alternativa alla strada. Sono tra i ragazzi che vengono considerati a rischio di devianza, per i contesti difficili in cui sono inseriti, o per problematiche personali o familiari. Oggi fanno parte di un laboratorio di teatro che li tiene impegnati almeno due giorni a settimana dopo la scuola. Parlando con loro si comprende che il “rischio” li ha solo sfiorati, o lo hanno superato: sanno bene quello che vogliono, ma anche cosa manca ai loro coetanei, gli amici che non sono riusciti ad uscire dal “buco”. Così Martina (il nome è di fantasia) definisce il quartiere in cui vive, quello di Ponticelli. Per lei il problema è che la zona dove abita “è emarginata, scollegata”: non esistono spazi di aggregazione, luoghi di ritrovo, e i ragazzi hanno difficoltà pure a spostarsi. Lei studia, ha 16 anni, abita nel rione Conocal. “Dove sto io non è una bella zona – racconta -. Ci sono persone normali, ma la maggior parte è come se fosse chiusa in un buco, quindi stanno là ed è difficile uscire. Io sono così perché ho avuto la forza di uscire, fare amicizie, partecipare ai progetti, altrimenti anche io sarei finita nel ‘buco’ – dice – i genitori che mi hanno cresciuto bene, educata. Ma ho anche mie amiche che hanno dei bravi genitori, però con le amicizie sono finite nel ‘buco’ e non sono riuscite ad uscirne, perché sono cresciute in quella realtà.

La maggior parte non va più a scuola. Dovrebbero esserci più opportunità, perché veramente è come se la mia zona fosse recintata, un ‘buco’ dove ci hanno gettato per restare così, è scollegata, sia fisicamente che moralmente”. Il Conocal è formato da un complesso di case popolari in cui si annida quel che resta del clan D’Amico, smantellato negli ultimi anni da diverse operazioni di polizia, il gruppo camorristico che negli anni passati si è fatto la guerra con il contrapposto clan locale dei De Micco, anche loro messi in ginocchio dalle inchieste giudiziarie. “Una cosa che chiedo allo Stato – è l’appello di Martina - è quella di farci uscire, collegare. Esistiamo, ci siamo anche noi”. Per i ragazzi del Conocal anche andare a scuola è un’odissea: “Abito nella periferia della periferia e non c’è niente: una pizzeria e una salumeria, poi basta. Per andare o al centro di Ponticelli o a Napoli devo fare le trasferte. Se voglio andare a Napoli la Circumvesuviana (stazione ferroviaria che collega Napoli ai paesi della provincia, ndr) chiude alle 18. Da casa mia per andare a scuola ci vogliono 10 minuti di auto, invece io se esco alle 7 del mattino ci metto un’ora con due pullman. Per esempio, ora dovremmo fare l’alternanza scuola lavoro di pomeriggio, alle 16, ma i pullman stanno fino alle 15. Teoricamente c’è un altro pullman che mi porta a casa, ma non passa mai”. E ciò accade in uno dei quartieri della periferia che, stando ai dati pubblicati dal Comune di Napoli, hanno fatto registrare un aumento del tasso di dispersione scolastica nelle scuole primarie per l'anno 2016/2017: Dalla lettura dei numeri emerge "un significativo aumento delle percentuali del fenomeno della dispersione scolastica per la scuola primaria della Municipalità 6 (San Giovanni, Ponticelli, Barra) che passa dallo 0,08% allo 0,18%. Per la scuola secondaria di primo grado, invece, risulta un aumento nella Municipalità 2 (Avvocata-Mercato Pendino), che passa dallo 0,74% a 1,55%”. Facendo riferimento alla totalità delle scuole pubbliche di primo grado presenti su tutto il territorio, per l’anno 2016-2017 le percentuali possono ritenersi stazionarie rispetto a quelle degli anni precedenti: 0,37% per la primaria e 1,06% per la secondaria, con 335 segnalazioni arrivate su 41.966 iscritti alla scuola primaria e 765 segnalazioni su 30.341 iscritti alla scuola secondaria, in una regione, la Campania, che con Sicilia e Sardegna ha un tasso che si attesta sopra la media nazionale. Le scuole di Chiaiano, Piscinola e Scampia restano quelle con la percentuale di evasione più alta a Napoli, seguite, da quelle dei quartieri San Lorenzo, Vicaria, Poggioreale e zona industriale, che formano quella Municipalità – la 4 - dove, per affrontare il fenomeno delle baby gang, una parte della commissione delle politiche sociali vuole vietare le riprese delle scene della serie tv Gomorra. Ma veramente può individuarsi in un film la causa della violenza che stanno esprimendo i giovani? Siamo entrati in una scuola del posto per capire cosa manca ai ragazzi e di cosa hanno bisogno.

Se la scuola da sola non riesce a recuperare i figli dei criminali: il racconto della preside dei baby camorristi

Anna Rita Quagliarella è la dirigente scolastica dell’istituto comprensivo Bovio-Colletta. Il plesso centrale si trova in via Carbonara, tra la zona Porta Capuana e Forcella. Un territorio difficile, caldo dal punto di vista criminale, dove la preside deve affrontare anche la questione ‘integrazione’ per la presenza degli immigrati che negli ultimi anni si sono concentrati in quella zona. Alcuni dei baby camorristi della paranza dei bambini sono stati suoi alunni. Oggi, quei ragazzi che hanno partecipato alla faida di camorra che ha insanguinato il centro storico di Napoli tra il 2014 e il 2016, li ricorda da studenti, per le “capacità intellettive fuori dal comune”. Ed esprime rammarico, perché la scuola non è riuscita a recuperarli da un destino già segnato. “Ho dovuto constatare la nostra impotenza”, afferma oggi, a distanza di pochi anni. “Ricordo – racconta - in particolare il più piccolo dei fratelli, un ragazzo che già a 13 anni si esprimeva come un liceale 18enne, argomentando anche le sue posizioni”. “Professo’, ma tanto è inutile, perchè a’ famiglia”, rispondeva ai professori che lo incoraggiavano e che provavano a indirizzarlo verso un liceo scientifico per le sue capacità. Il suo era uno di quei casi in cui, secondo la dirigente, serviva un un allontanamento drastico dal contesto familiare. Quei ragazzi, che sono stati definiti baby camorristi, usavano le armi e la violenza per conquistare il territorio, per aggiudicarsi gli affari illeciti che avrebbero fatto crescere economicamente il clan di appartenenza. Ma non sempre dietro un minore violento c’è la camorra. Lo racconta la cronaca degli ultimi mesi. Le storie sono differenti e bisognerebbe conoscerle tutte per entrare nel cuore del problema. Nell’ultimo periodo, le aggressioni minorili per cui Napoli è salita alla ribalta della cronaca hanno assunto una connotazione differente. Adolescenti, ma anche bambini, hanno usato la violenza senza alcun motivo. Hanno pestato dei coetanei a mani nude o con delle armi. Come se avessero voluto affermarsi con la violenza nel loro contesto, nella società. Una sorta di dimostrazione di forza. E non sempre alle loro spalle hanno famiglie di criminali. Nella sparatoria avvenuta il 19 novembre scorso in via Poerio, a Chiaia, quartiere “bene” di Napoli, in cui rimasero feriti almeno 6 ragazzi (la maggior parte minorenni), presumibilmente era coinvolto il figlio di un boss del rione Traiano. In provincia di Napoli, a Pomigliano d’Arco, per aver pestato due coetanei a mani nude e con una catena (dopo avergli strappato dalle mani un cellulare) sono stati fermati un 15enne e un 13enne (libero per l’età non imputabile) che fanno parte di famiglie problematiche: il papà del più piccolo è in carcere, fu arrestato nell’operazione “Blu sky” che nel 2016, tra Sant’Anastasia e Somma Vesuviana, portò all’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare per associazione a delinquere di stampo mafioso ed estorsione nei confronti di venti soggetti ritenuti affiliati ai clan D’Avino di Somma Vesuviana e Anastasio di Sant’Anastasia. Tra i destinatari del provvedimento figurava anche colui che è ritenuto il boss della cosca malavitosa di Somma, Giovanni D’Avino. Il papà del 15enne, invece, ha un precedente penale per un furto avvenuto nel 2013. Non si può dire lo stesso per i presunti aggressori di Arturo, il 17enne accoltellato mentre il 18 dicembre scorso percorreva via Foria, a Napoli: farebbero parte di famiglie semplici e incensurate.

"Servizi sociali insufficienti"

Dal suo osservatorio privilegiato, la preside Quagliarella, che da 34 anni lavora sullo stesso territorio - quello che va da Forcella a Poggioreale – lo conosce molto bene e conosce bene i disagi dei suoi alunni, oltre che certe dinamiche psicologiche, ritiene per far fronte alla devianza giovanile occorra un monitoraggio e un accompagnamento individuale e personalizzato dei giovani che manifestano dei disagi. Sono tanti i progetti che si fanno nelle scuole e i fondi non mancano: “Un po’ tutti - dice - attiviamo questi percorsi accedendo a diverse tipologie di bando, dai bandi europei a quelli regionali, ad altri promossi direttamente dal Miur. Nonostante questo, i fenomeni di devianza sono andati effettivamente diffondendosi in maniera esponenziale”. A suo avviso, la scuola da sola non può fare molto: serve “un’azione sinergica da parte di più istituzioni”. Ritiene che siano da potenziare i servizi sociali che, sulla base della sua esperienza, sono “insufficienti per assicurare un servizio di sostegno allo sviluppo dei minori che vivono all’interno di contesti multiproblematici o violenti”. Per lei, “l'accompagnamento dovrebbe prevedere delle domiciliari frequenti, colloqui approfonditi, tutoring e mentoring nei confronti dei minori, richiami anche più espliciti, più diretti, sanzioni rivolte alle famiglie quando questi comportamenti continuano a reiterarsi all’interno dei contesti scolastici”. Invece, nella realtà, “la segnalazione ai servizi sociali – rivela - non comporta quasi nulla, se non una visita domiciliare, oltretutto anche dopo un bel lasso di tempo. E, poi, un eventuale indirizzamento ad attività pomeridiane che un po’ lasciano il tempo che trovano, perché non è solo di questo che i ragazzi hanno bisogno, occorre scardinare i loro modelli di riferimento, e questo non è un lavoro che da sola la scuola può svolgere, ma deve essere coadiuvata da altre tipologie di operatori”.

Fondi comunali in ritardo all’associazione per bambini a rischio della Sanità

Su un approccio del genere, di tipo personalizzato, si basa il progetto a cui più associazioni stanno lavorando nella Sanità, il rione dove il 6 settembre del 2015 fu ucciso per errore il 17enne Genny Cesarano. Fu colpito durante una “stesa”, quando la camorra o chi aspira a entrare nel sistema scende in strada e spara senza un obiettivo preciso. Un luogo pieno di storia, la Sanità. Di cultura, ma anche di problemi, come la criminalità organizzata, e di difficoltà. Ci sono i delinquenti, ma tante sono le famiglie perbene che si sudano il salario e vanno avanti tra mille peripezie. Genny era uno dei ragazzi che Giuseppina Conte conosceva: “Un bambino straordinariamente buono”, così lo ricorda la presidente del “Centro diurno Progetto Oasi”, l’associazione che in via Cagnazzi si occupa di circa 200 bambini del quartiere. “Quando è stata inaugurata la statua a lui dedicata, non sapevo se piangere per Genny o gioire all’idea che un mio alunno ce l’avesse fatta e fosse diventato uno scultore, Paolo La Motta”. Pina parla del suo centro diurno, dei suoi ragazzi e delle soddisfazioni che le regalano, racconta di colui che è diventato uno scultore affermato, ma anche del figlio del malvivente che si è laureato. Afferra una tesi di laurea in giurisprudenza e la mostra con orgoglio, poi prende una pistola scenica col tappino rosso e dice: “Vedi cosa ho trovato. L’ho requisita a un bambino. Ha detto che era del papà”. E il suo ufficio, quello in cui prova a sintetizzare in pochi mochi minuti il suo centro, è espressione della realtà in cui si inseriscono i bambini e gli adolescenti che vuole togliere dalla strada. Nella struttura ci sono un asilo con due sezioni, scuola elementare e media. È un istituto privato, ma speciale, perché i bambini non pagano la retta. Arrivano lì su segnalazione dei servizi sociali. Sono piccoli che si trovano in quelle aule perché parte di contesti difficili, disagiati. “La maggior parte di loro hanno i genitori che non lavorano”, spiega Giuseppina. Fanno lezione a partire dalle 8,30 del mattino. Nel pomeriggio, a partire dalle 14, la struttura resta aperta per le attività di laboratorio a cui possono partecipare anche altri ragazzi del quartiere: musica, teatro, scultura, pittura, arti presepiali. C’è anche la redazione di un giornalino, il “Vesuvio”. E all’esterno una piscina e gli spazi per fare sport. Tutto ben curato e in ordine, nonostante l’associazione sia in difficoltà: il Comune di Napoli da 20 mesi non gli versa i fondi. “Purtroppo il mio sindaco, che stimo tantissimo, è una persona molto perbene, sta avendo dei grandi problemi economici, perché lui ha la cassa sempre vuota, e noi abbiamo questo centro con i suoi problemi giornalieri. Però facciamo qualcosa per questi ragazzi – è il suo appello - perché io quanto ancora posso resistere? Gli operatori vengono lo stesso a lavorare, i fornitori ci forniscono lo stesso. Solo ogni tanto abbiamo problemi con l’energia elettrica e chiedo i prestiti. Poi i contributi. Però questa è una mancanza di rispetto per la gente che lavora, che ci crede, e per i ragazzi che frequentano i centri diurni”. E mentre lo racconta la segretaria, nella stanza a fianco, apre l’ennesima lettera di diffida al pagamento di somme che non sono riusciti ancora a versare, mentre degli scolaretti continuano a studiare nelle aule. L’attività si regge sui fondi comunali e, a causa dei ritardi con cui arrivano i finanziamenti pubblici, Giuseppina è costretta a rivolgersi alle banche. Qualche privato, conoscendo l’associazione, la sostiene: “in particolare un grande imprenditore, che non vuole che si faccia il suo nome”. Dei suoi sacrifici personali, di quelli che fa per tenere in vita quel posto per i ragazzi del rione, Giuseppina non vuole che se ne parli, ma li conosce bene chi sa cosa deve affrontare e quanto impegno ci mette ogni giorno per fare in modo che le attività dell’associazione restino in piedi. “Da 40 anni sono in questo quartiere. Ci lavoro e ci vivo, perché dovevo capire bene cosa succedeva veramente”, Giuseppina vuole osservare da vicino i minori della Sanità. “Io li vedo – riferisce - che da una certa ora vanno avanti e indietro su quegli scooter e glielo dico di uscire fuori, di spostarsi, di conoscere altro. Vedo quelle ragazzine che camminano come un’attrice di Gomorra, i ragazzi hanno tutti i capelli come quei personaggi”. “Sono lo specchio di quelle immagini che – secondo lei - hanno dato una visione distorta di quella che è la criminalità. Non ce l’ho con gli autori di Gomorra, ma penso che abbiano sbagliato. Perché molti ragazzini oggi vogliono emulare. Oltre Gomorra c’è anche un gioco che è di una violenza inaudita, è a punteggi, chi uccide diventa importante”. Per Giuseppina sicuramente i giovani violenti hanno alle spalle problematiche familiari, parla poi di scuole in cui “il rapporto tra alunni e insegnanti è distante”, dice che serve un “esercito di educatori” e chiama in causa le “madri distratte”: “il genitore deve ritornare a fare il genitore”. Ma, a suo avviso, “quello che ha determinato un peggioramento di questi ragazzi è lo scimmiottare questi personaggi”. Lorenzo (nome di fantasia) è d’accordo, lui vive a San Giovanni a Teduccio, è uno studente, non è ancora maggiorenne: “Ho visto alcuni ragazzi che cercavano di imitare personaggi di Gomorra”, dice, mentre i suoi amici aggiungono che ci sono altre serie tv simili. La pensa diversamente Cesare Moreno, presidente della onlus “Maestri di strada”, che comunque attribuisce a “Gomorra, al Padrino, e ad altri film del genere, la colpa di fornire ai criminali una epica, una narrazione eroica, che loro non sono in grado di produrre da soli - e aggiunge – i tre quarti dei giornalisti che scrivono di camorra sono peggio di Gomorra, perché fanno una rappresentazione dei criminali molto al di sopra di ciò che loro sono”. L’associazione di Moreno opera principalmente nella periferia a est di Napoli, entra nelle scuole di San Giovanni a Teduccio, Barra e Ponticelli. Con i suoi educatori affianca gli insegnanti nelle scuole di frontiera, e lì “recluta” ragazzi difficili o che, inseriti in realtà degradate, vogliono risalire la china. “La gioventù è naufragata per colpa dell’intera società. L’area dell’emarginazione e dell’abbandono educativo è molto grossa. Soltanto nella zona nostra conta migliaia di ragazzi”, afferma Moreno. “Una delle cause dello sbandamento dei giovani – osserva - è lo sfascio del focolaio domestico. La quantità di famiglie monoparentali che c’è a San Giovanni, Ponticelli, Barra batte tutti i record”. “I carri armati non possono stare là in permanenza, quindi ci vuole qualcuno che rimane. Per esempio presenze educative territoriali, agenti territoriali della buona amministrazione. Poi – riflette - contro la criminalità bisogna fare cittadinanza attiva, ma per farlo ci devono essere dei punti di riferimento, dei luoghi dove la gente si può riunire, parlare, e dove stanno? O ci sta una rete sociale a monte, oppure la polizia non funziona”. La repressione da sola non basta, soprattutto quando deve essere attuata nei confronti di quelli che sono bambini, prima che criminali.

“Per combattere la battaglia criminale – dichiara Moreno - ci dovrebbe essere un’azione parallela, prevenzione, repressione e presenza militare, ma noi siamo indietro sull’integrazione dei vari strumenti”.

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