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"Fini riciclatore seriale"

Accusa choc del gip: lui e la compagna al centro di reati gravi e ripetuti

"Fini riciclatore seriale"

Gianfranco Fini non solo non è stato «coglione» (sono sue parole) perché non ha visto le ruberie e le truffe di suo cognato e dei suoi parenti. Forse, almeno stando alle carte della procura di Roma, è stato «coglione» a tutto tondo. Nel senso che, secondo i magistrati, l'ex presidente della Camera era non solo a conoscenza di quanto combinavano i suoi parenti stretti, ma era addirittura complice della banda dei Tulliani, il cognato Giancarlo, latitante a Dubai (ieri è stato spiccato per lui un ordine di arresto), e la compagna Elisabetta, indagata per truffa e riciclaggio. Le accuse nei confronti di Fini sono gravi e circostanziate e vanno ben oltre lo scandalo della casa di Montecarlo svelato da il Giornale che diede avvio all'inchiesta.

Le malefatte contestate iniziano al tempo in cui Fini era il potente presidente della Camera e un riconosciuto leader politico. La domanda è: quando, nel 2010, diede vita alla scissione del Pdl e tentò, sotto la regia di Napolitano, la spallata al governo Berlusconi, Gianfranco Fini era un uomo libero o qualcuno, magari a conoscenza di fatti penalmente rilevanti commessi dalla sua famiglia con il suo aiuto, lo stava ricattando? È possibile che a Fini qualcuno abbia offerto un salvacondotto personale in cambio di una virata politica che apparve scellerata, immotivata e storicamente suicida?

Dico questo perché, alla luce delle carte che oggi leggiamo, viene spontaneo chiedersi come abbiano fatto i magistrati che nel 2010 indagarono sul caso Montecarlo, sull'onda dell'indignazione dell'opinione pubblica, a chiudere (frettolosamente) l'inchiesta con una richiesta di archiviazione. I casi sono due: o quelle indagini furono fatte da pm più che sprovveduti («coglioni», direbbe Fini) o era scritto da qualche parte che Gianfranco Fini e i Tulliani dovevano uscire indenni per motivi indicibili. E allora si capisce l'arroganza e il senso di impunità con cui il presidente della Camera si mosse in quei giorni. Appariva sicuro di essere intoccabile. E non escludo che si senta ancora oggi intoccabile. Perché se dovesse parlare lui, non dei Tulliani, non del riciclaggio, ma di quel complotto che lo scelse come l'utile «coglione», avremmo davvero di che divertirci.

Almeno noi, altri no.

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