Governo del cambiamento è solo un gioco di parole

Iva, Libia, decreti: sproloqui che nascondono il nulla di fatto

Governo del cambiamento è solo un gioco di parole

La giostra gialloverde comincia di buon mattino. Il ministro dell'Economia, Giovanni Tria, nei panni di monsieur de Lapalisse spiega in Commissione alla Camera che se non si troveranno nuove entrate e, magari, si vorrà tirare fuori dal cilindro una simil-flat tax, bisognerà aumentare l'Iva, cioè dare corso alle clausole di salvaguardia dell'ultima legge di Bilancio. In un attimo il responsabile del Mef è investito dalle intemerate del ministro leghista Centinaio («non aumenta nulla, trovi altre risorse»), di Matteo Salvini («non se ne parla»), del capogruppo dei deputati grillini, Francesco D'Uva («aumentare l'Iva significa contrarre ancora di più i consumi»). Uno potrebbe pensare che Tria rischi il posto. Invece, niente: sono solo parole. Tant'è che pure l'opposizione si è convinta che Tria starà al Mef prima e dopo le elezioni europee. «La verità spiega Pier Luigi Bersani, che ha una lunga esperienza di ministeri è che né la Lega, né i 5stelle vogliono il ministero dell'Economia. Vogliono che in quel posto ci sia un punching ball, un ministro da attaccare a parole per dargli la responsabilità di ciò che i conti non permettono di fare».

Appunto, una palestra di parole. Tanto costano niente e non fanno male. La giostra gialloverde del pomeriggio vede in campo chi detiene il primato della verbosità, chi dichiara da mane a sera, senza intervalli, tra agenzie di stampa, Tv, tweet, Facebook, Instagram, e, diciamolo pure, circolari ministeriali: cioè Matteo Salvini. Addirittura la «chiacchiera» gli ha conquistato un posto tra i 100 uomini più influenti del mondo nella classifica di Time. L'altra sera è riuscito a far arrabbiare ammiragli, generali e il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta: con una circolare in cui li ha comandanti a bacchetta, dando indicazioni su come trattare i barconi di migranti in arrivo da una Libia sconvolta dalla guerra. Ieri pomeriggio con un'altra direttiva ha dato ai prefetti la possibilità di scavalcare i sindaci nella gestione della sicurezza nelle zone più a rischio, le cosiddette zone rosse, delle città. Siamo tornati ai Podestà. Ma al solito si tratta solo di parole, buone per la campagna elettorale ma che alla fine generano solo tanta confusione su compiti e ruoli nell'amministrazione. Tanto da lasciare perplesso anche l'altro campione del «prolisso» fine a se stesso, cioè Giggino Di Maio. «Come fa a dire si è lamentato con i suoi il vicepremier dell'emisfero giallo che la guerra in Libia non cambia niente sul tema dell'immigrazione?! Ma puoi litigare pure con i generali! È ubriaco di slogan».

Già, oltre ad aumentare lo spread, il governo gialloverde ha prodotto una preoccupante inflazione di parole a danno dei fatti. Una logorrea continua in cui si confondono polemiche, aspirazioni, proposte e decisioni. Ci sono decreti come quello sulla «crescita» o sullo «sblocca cantieri» che secondo la narrazione ufficiale del governo dovrebbero essere già in vigore, ma che invece non sono neppure arrivati al Quirinale. Inghiottiti nel limbo dei provvedimenti di legge che si debbono ancora perfezionare o, peggio, di quelli su cui le due «anime» del governo debbono trovare un accordo. Eppure il fiume di parole riesce a coprire il «vuoto» di fatti. Anche se certe argomentazioni rasentano il nonsense, come la relazione con cui il Dibba grillino e terzomondista (che da afono per l'occasione è diventato parlante) si indigna perché per la ricostruzione di Notre Dame si stanno raccogliendo milioni di euro, mentre per contrastare la guerra in Libia, a suo avviso, nulla. Un'argomentazione che c'entra come i cavoli a merenda. Eppure questa strategia in cui le due forze di governo occupano tutto il palcoscenico, litigando un giorno sì e l'altro pure, nei sondaggi paga. Secondo la maga Ghisleri questa settimana la Lega è risalita dal 31,4 al 33% e i grillini dal 19,4 al 20,8%. Il Pd, invece, è sceso al 19,6% mentre Forza Italia che era all'11,1 al 10,6%. Così sorge il dubbio, il sospetto sempre più fondato, che la «giostra» sia il frutto di una strategia «perversa», comune ai gialli e ai verdi. Non per nulla tante polemiche non hanno scalfito la strategia di Salvini. «Io ha ripetuto l'altra sera davanti a tutti i parlamentari della Lega, riuniti per un training autogeno per la campagna elettorale non staccherò la spina al governo. So che i grillini mi attaccheranno, ma vado avanti. L'importante è che non mi facciano incazzare oltre un certo limite».

Quel limite, però, deve essere molto elastico - e magari funzionale - visto che è più dura la polemica dei grillini contro i partner di governo della Lega, che non quella di Forza Italia, che pure è all'opposizione. Questa è la vera contraddizione, ma è la contraddizione di un partito d'opposizione. Se poi si pensa che a sbarrare la strada alla disponibilità di Mara Carfagna di candidarsi alle europee è stato un «big anonimo» del partito, cioè «parole senza volto», si comprende che da queste parti si supera anche il paradosso. «Mi hanno accusato di un golpe spiega la Carfagna quando tentavo solo di dare una mano in questa battaglia proprio al presidente. La verità è che ci saremmo dovute candidare tutte, da me alla Gelmini, alla Bernini: metterci in gioco per il partito, ribellarci a chi da fuori ci predice il declino». Appunto fatti, non parole. Ma pure qui le parole hanno preso il sopravvento sui fatti. «Cara Mara gli ha spiegato Berlusconi al telefono avrei tanto voluto, ma qui hanno dei dubbi, dicono che fai il vicepresidente della Camera, che non puoi lasciare l'Italia».

E poi il Cav, che è sempre pronto a lanciare il cuore oltre l'ostacolo per trovare un compromesso, ad inventarsi l'impossibile per mettere tutti d'accordo, gli ha proposto: «Ma perché non ti candidi qui con me nel Nord-Est?». Ipotesi che chi ha sempre fatto politica nel Sud poteva solo rifiutare.

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