Ho scritto "allocchito" e mi hanno processato

Il collega si offese: "È come darmi dell'ignorante". E si rivolse all'Ordine

Ho scritto "allocchito" e mi hanno processato

Indimenticata, alla fine di questa bislacca vicenda, resterà l'espressione di Pino, il postino, che porgendomi la raccomandata – un bustone 19x26 di quell'inamichevole verdino che hanno gli atti giudiziari - sentì di dovermi offrire uno scampolo di desolata solidarietà. «Eh... dottore, quando le buste sono di questo colore...». Corte d'Appello di Milano! intimava l'intestazione, e anche se il punto esclamativo non c'era, l'effetto fu quello. Trenta secondi febbrili, il tempo di scorrere il dispositivo, ma quando levai gli occhi dal foglio, gridando «Assoltooo...» Pino stava già scooterando la sua amarezza in fondo alla stradina. «Ti hanno graziato? Sono allocchito», mi corbellò un'ora dopo il mio amico Luigi. Un po', in effetti, ero allocchito anch'io, e fra qualche riga, secondo me, la compagnia si allargherà.

Cinque anni fa scrissi un articolo su una «figlia segreta» che Giuseppe Garibaldi avrebbe avuto da una signora svelta di gamba che nonostante il cognome tedesco era di Pavia. La vicenda, ripresa dall'Ansa, era stata raccontata da un cronista del TGR, tale Enrico Rotondi, che a sua volta l'aveva appresa da uno storico di Varese. Raccontai la storia col tono leggero e scanzonato che meritava, apparentandola – ma così, per ridere - a una di quelle storie «farlocche», a quei «serpenti di mare» che d'estate s'infilano nelle redazioni. E mettendomi nei panni del cronista, perché così mi ci sarei sentito io, nell'apprendere il fatto, me lo figurai «allocchito», cioè sorpreso. Il collega si offese («Allocchito? È come darmi dell'ignorante») e si rivolse all'Ordine dei giornalisti perché «nelle sue funzioni deontologiche e disciplinari» valutasse il caso. Altri, gente priva di delicatezza e di tatto, avrebbero seppellito il querelante sotto un convulso di risate, spedendogli un quartino di Tavor e la fotocopia della definizione di «allocchito» tratta da un qualsiasi dizionario, il Garzanti per esempio, che alla voce allocchire recita: «restare attonito, sbalordito: era rimasto allocchito a guardare nel vuoto (Calvino)». Casi di superfetazione dell'Io, del resto, se ne registrano ogni giorno, nel nostro mestiere. Siamo una categoria di narcisi, in cui il più fesso crede di essere Hemingway. Invece, stavolta, il Consiglio di disciplina ravvisò gli estremi di un qualche fumus boni iuris , come dicevano i latini, avviando un procedimento disciplinare nei miei confronti. Cinque anni (CINQUE) di sofferta e dolorosa istruttoria (il caso presentando in effetti una sua evidente complessità) sfociata in un rinvio a giudizio che si è tenuto il 19 marzo scorso. Davanti a me, erti nel loro professorale sussiego, tre sconosciuti (da me, certo): il signor Tino Fiammetta e le signore Claudia Balzarini e Franca De Ponti. Piuttosto inesperto nel ruolo dell'imputato, temo di aver sfoggiato una condotta piuttosto indisponente. «Luciano Gulli – si legge nella sentenza- ha tenuto nei confronti di questo Consiglio un atteggiamento polemico, lamentando di dover perdere tempo per una questione insignificante risalente a cinque anni prima e chiedendo ai membri del Collegio ragione del fatto che essi perdessero il loro tempo e lo facessero perdere agli altri».

Ed eccoci alla sentenza. Sette euro e 70 di francobolli sulla mia raccomandata, tanto per cominciare. E altrettanti su quelle inviate alla Procura generale, al querelante, all'Ordine, al Consiglio... Quanto alla sostanza dei fatti, scrivono i miei giudici, «è del tutto comprensibile che Enrico Gulli (ma non si chiamava Rotondi, il querelante?) si sia sentito mortificato nel sentirsi definire “allocchito” (termine che, pur avendo il significato di stupito porta inevitabilmente alla mente la parola allocco, la quale non suona come un complimento) e soprattutto nel sentire definire “farlocca”la storia da lui portata all'attenzione del pubblico».

E dunque? E dunque sarebbe fioccata una condanna coi fiocchi. Senonché «questo Collegio, tenuto conto che si tratta di una vicenda di cinque anni fa, tenuto conto del fatto che Luciano Gulli in quarant'anni di carriera giornalistica non ha mai avuto rilievi disciplinari...» Insomma: colpevole. Ma perdonato.

Infine, ecco la stoccata di questi tre insigni linguisti, che ritengono dall'alto del loro magistero di dar lezioni al sottoscritto sull'uso e il significato delle parole. Giacché il qui presente, si dice, «non si è reso conto di come le parole da lui usate potessero ferire la sensibilità del collega».

Graziato, dunque. Fascicolo archiviato. Ora vi domando: cinque anni di istruttoria, un processo, una mattinata di tempo perso, una raffica di raccomandate, un postino inutilmente amareggiato... Ma non è una storia da restare allocchiti?

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