I Cinque Stelle sono sull'orlo dell'implosione. Una supernova che qualcuno festeggerà a champagne. Se avevamo dei dubbi, il sigillo di certificazione in ceralacca lo ha apposto il redivivo Alessandro Di Battista. Alla fine, l'eroe dei due mondi, ha capito che con il suo peregrinare per le Americhe è rimasto fuori dal mondo. Almeno dal mondo pentastellato. Mentre lui era in movimento il Movimento si allontanava da lui. Meglio starsene in Italia e seminare un po' di zizzania anziché giocare a fare l'hippie fuori tempo massimo con un nuovo viaggio in India. Il ritorno di Di Battista sulla scena politica, dopo mesi di silenzio, è un ritorno agrodolce. Che sa di rabbia e insoddisfazione, un ritorno più per risentimento che per sentimento. È un po' come quello che parte per un lungo viaggio e quando torna trova la sua fidanzata tra le braccia di un altro. Lo ammette candidamente, d'altronde, che l'immagine dei suoi amici che firmano da ministri mentre lui è appena sbarcato per il suo erasmus equo e solidale, lo ha fatto «rosicare per un mese e mezzo». E ci auguriamo che Grillo gli abbia spedito l'ormai mitologico Maalox. Ce lo immaginiamo, il Dibba, a girare le periferie del mondo in Birkenstock ma con l'occhio fisso allo smartphone, per vedere quello che combinano i suoi in Italia. E rosicare. Salvo poi magnificare, nei suoi imperdibili reportage, la superiorità delle tribù del Guatemala e le miserie del sistema capitalistico.
E ora il suo ritorno - annunciato in tv in un programma prodotto da Loft (di proprietà del Fatto) e rilanciato dal quotidiano di Travaglio - sembra più che mai una vendetta. E spiazza tutti, a partire dai vertici del movimento che non ne sapevano nulla e lo consideravano - e continuano a considerarlo - fuori dai giochi. Perché ha perso il turno giusto, non ha più feeling con la base elettorale e tocca tutti gli argomenti che il governo cerca di evitare: dalla Tav al Venezuela. Fuori tempo e fuori posto. È pur sempre il Di Battista che, non più tardi di cinque anni fa, sosteneva che non bisognava considerare disumani i terroristi dell'Isis, ma elevarli a interlocutori dell'Occidente.
E ora cade come una bomba sui papaveri pentastellati quella che più che una dichiarazione sembra una speranza: «Se dopo le elezioni dovesse cadere il governo io mi candiderei». Ha rotto il tabù: l'ipotesi crisi è sul tavolo. E probabilmente, questa volta, Beppe il Maalox ha dovuto darlo a Giggino.
Cade come una bomba perché precipita nel momento di massima tensione tra Salvini e Di Maio, mentre i sondaggi dei Cinque Stelle continuano a scendere, il partito è sempre più a traino della Lega e il Pd sembra aprire una porticina ai grillini. Anche la scelta del Fatto - quotidiano di cui Di Battista è collaboratore - non sembra per nulla casuale: da sempre il giornale di Travaglio ha cercato di riportare verso sinistra i pentastellati.
Tra i due litiganti Di Battista cerca di godere. Anche se i litiganti sono ben più di due. Perché Dibba approfitta di un movimento allo sbando. Beppe Grillo è un padre sempre più lontano, critico e pungente nei confronti della sua creatura politica. Quando può sbertuccia Di Maio («Con lui ci vuole pazienza, ha 32 anni») e attacca Salvini. Davide Casaleggio pensa alla sua azienda, ai suoi software e allo sviluppo della Blockchain, senza avere la visione politica del padre. Di Maio non sa come sfuggire dall'ingombrante ombra di Salvini e non riesce più a tenere a bada le sue truppe sempre più scalmanate e sgangherate.
In questo clima da «liberi tutti» prova a farsi largo pure Giuseppe Conte - premier assunto a tempo determinato dai Cinque Stelle, una specie di navigator di alto bordo - che ora reclama una sua autonomia e una sua terzietà. E l'imboscata del subcomandante Dibba è il termometro del caos tra i Cinque Stelle. Fino a qualche mese fa una cosa del genere sarebbe stata impensabile.Da uno vale uno a tutti contro tutti il passo è stato brevissimo.
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