Il fallimento della scuola dei burocrati

I nostri studenti semi-analfabeti e l'eredità del buonismo

Il fallimento della scuola dei burocrati

Sono cinquant'anni che la scuola dei burocrati produce teorie astruse e cattiva istruzione. All'inizio del millennio, il programma scolastico delle scuole superiori suggeriva di non imporre le regole della grammatica ma di far nascere nello studente la consapevolezza delle stesse. Risultato: errori di ortografia da quinta elementare nei temi della maturità. Simili sciocchezze hanno condotto la scuola italiana nel baratro.

Non ci credete? Il Giornale presenta oggi un'indagine condotta da Massimo Arcangeli e Claudia Colafrancesco sulla padronanza del lessico da parte degli studenti delle scuole secondarie di primo e secondo grado. Di fronte ai risultati, è impossibile decidere se mettersi a ridere o a piangere. Il brutto è che non si vede chi possa risolvere il problema. La politica in generale e il ministero dell'Istruzione in particolare sono pozzi di creatività che rigurgitano purtroppo idee bizzarre. Indicazioni metodologiche improbabili su socializzazione, problem solving, multitasking. Elucubrazioni kafkiane su «conoscenze», «competenze», «abilità» e «complessità». Ridicolaggini sul «successo formativo garantito». Propaganda sulla «buona scuola». Una montagna di chiacchiere dietro alla quale si intravede un filo conduttore: farla finita con la trasmissione tradizionale della cultura.

Il professore, da fonte della conoscenza, è stato follemente declassato a specialista nella gestione dell'istruzione. Insomma, è un tipo malpagato che dà una mano a trovare le informazioni. Gli studenti, meglio se in gruppo, si costruiscono da sé le famose «competenze». Ciascuno secondo le proprie potenzialità, ci mancherebbe, e tanti saluti a un metro di giudizio per quanto possibile oggettivo. A tutto questo bisogna aggiungere il culto acritico della Rete, enciclopedia universale del sapere (non verificato). Le nozioni sono già on line, a portata di tablet, dunque è inutile studiare. Via anche i libri. Meglio una connessione wi-fi. Anche perché se dovesse mancare, torneremmo all'età della pietra: presto pochi sapranno accendere un fuoco senza consultare Wikipedia. In quest'ottica, i programmi sono da semplificare. Non a caso è stato ridotto lo spazio di materie come latino, greco, storia antica, grammatica, geografia, matematica. L'università ha seguito lo stesso percorso. Lauree sempre più brevi e sempre meno utili. I corsi un tempo considerati fondamentali sono diventati «da specialisti». In nome del «successo formativo garantito» a tutti, o se preferite dell'istruzione di massa, si è abbassato il livello al punto che ormai siamo arrivati rasoterra. La realtà, soprattutto nel mondo del lavoro, provvede ad azzerare ogni discussione pedagogico-didattica: chi non sa leggere, scrivere e fare di conto parte con un gravissimo svantaggio. Con buona pace degli egualitari della domenica, il primo compito della scuola, dalla notte dei tempi, è il seguente: insegnare la grammatica e l'aritmetica. Proprio quello che non fa più.

Come mostra l'inchiesta di Arcangeli e Colafrancesco, la demagogia, in campo scolastico, ha prodotto danni forse irreparabili. Sarebbe il caso di tornare ai fondamentali ma sarà difficile in una società che venera il «progresso» ovunque conduca, anche alla rovina.

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