Nel febbraio 1985 il cardinale Pietro Palazzini, prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, convocò una conferenza stampa in Vaticano. Alla presenza di molto clero e giornalisti comunicò solennemente che «Giordano Bruno Guerri è uno strumento del Demonio». Esterrefatto, pensai che le strade di Satana devono essere quasi quante quelle del Signore, tanto era tortuosa quella che mi aveva condotto a una così singolare condanna.
Tre anni prima, infatti, stavo conducendo una ricerca per il 50° della fondazione di Littoria, oggi Latina, e andai nella caserma dei carabinieri per cercare documenti sugli atti di criminalità prima e dopo la bonifica delle paludi. Lì mi imbattei in un pesante incartamento: in latino, e mai ho ringraziato tanto il cielo di avere faticato per impararlo. Si trattava degli atti del processo canonico per la beatificazione di santa Maria Goretti, finito per sbaglio in caserma mentre, scoprirò dopo, in Vaticano avevano gli atti del processo penale all'assassinio. Lessi con stupore crescente: forzature dibattimentali, condizionamento di testimoni, persino evidenti falsità. Di fatto, lessi, ben pochi ecclesiastici erano favorevoli alla beatificazione. Se non che, subito dopo la Seconda guerra mondiale, Pio XII era sgomento per quanto accadeva nell'amata Italia, liberata dagli americani, i quali avevano portato profilattici, boogie-woogie, scostumatezze varie, specialmente alle donne che durante la guerra si erano abituate al lavoro in fabbrica e a più libertà. Occorreva un esempio di moralità più immediato e vicino dell'antica Sant'Agnese, poi declassata.
Il mio libro Povera Santa, povero assassino (allora Mondadori, oggi Bompiani) rilevava i pasticci combinati durante la beatificazione, ma soprattutto metteva in risalto la terribile vita di una bambina di 11 anni, costretta a vivere in una miseria indicibile nelle Paludi Pontine di fine Ottocento, a 50 chilometri da Roma, roba che oggi quello che chiamiamo terzo mondo è un villaggio globale di lusso. Nello stesso mondo viveva il suo assassino, un infelice ragazzo di 20 anni, che all'ovvia resistenza della bambina la uccise con un punteruolo.
Dopo la definizione del cardinale Palazzini ci furono polemiche a non finire, durate un mese sui giornali. Un'orribile tesi molto diffusa era che se mi ponevo quel problema voleva dire che ne avevo di spirituali, mentre il mio interesse era soltanto di conoscenza, e volevo voglio bene alla povera Maria, senza curarmi se sia santa o meno. Mi parve particolarmente grave che nessuno giudicasse inconcepibile che alla fine del XX secolo - uno studioso venisse pubblicamente dichiarato «strumento del Demonio». Fatto è che dopo qualche settimana l'Osservatore Romano comunicò al mondo che ero «fuori dalla comunità ecclesiale», ovvero la condanna più grave dopo la scomunica, secondo il diritto canonico comminabile a chi provocava uno scisma.
La verità è, credo, che avevo inferto un colpo alla credibilità della «fabbrica dei santi», proprio mentre Giovanni Paolo II canonizzava in continuazione, più di qualsiasi altro, e avevo creato disturbo. Ma non mi ero molto allontanato dalla verità se, poi, lo stesso papa, suggerì agli agiografi e a tutti quelli che si occupano di santi di prestare maggiore attenzione storiografica alle condizioni sociali e biografiche di santi e aspiranti. Mi piace credere, anche, che il mio lavoro sia servito ad attenuare il peso delle prediche sui bambini, che per generazioni si sono sentiti assurdamente dire «fate come Maria Goretti», ovvero fatevi ammazzare piuttosto che cedere al peccato.
Adesso credo che papa Francesco faccia bene, secondo la dottrina cattolica, a scomunicare i mafiosi, ovvero gente che pecca per principio contro la società civile e contro la Chiesa, senza alcuna intenzione
di pentirsi. Ma, già che ci sei, Francesco, vuoi riconsiderare la mia posizione? Non è che ci tenga tanto a rientrare nella comunità ecclesiale, è che venire definito un cacciavite del demonio urta il mio senso estetico.
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