Il labirinto è uno spazio fra parentesi. Certo, fa parte del Tutto, come ciò che sta là fuori, ma ne è una enclave, e infatti occorre una «chiave», fisica o mentale, per uscirne. Il labirinto è dunque l'attesa di uscire dal labirinto. Attesa dinamica, spasmodica ricerca della via di fuga. Il labirinto è anche figlio di un compromesso, è un ibrido, come ibrido, mezzo uomo e mezzo toro, era il Minotauro figlio di Pasifae. Minosse, il re tradito da sua moglie con una bestia, non lo uccise, il parto della vergogna. Volle fare di peggio: lo mise fra parentesi. E dovette arrivare il buon Teseo a... tagliare la testa al toro-uomo.
Il tema del labirinto è anche di per sé una materia labirintica: sai quando e dove e come vi entri, ma non sai quando, in quale modo e soprattutto se ne uscirai. Questo, beninteso, se sei consapevole di entrare nel labirinto. Quando invece non ne hai contezza... be' allora le cose si complicano maledettamente. Perché a volte il labirinto lo riconosci soltanto quando ne esci. Se ne esci. C'è gente che sta tutta la vita in un labirinto, senza saperlo. Prendete i personaggi di Leo Perutz, lo scrittore-matematico della Finis Austriae: per lo Stanislaus Demba di Dalle nove alle nove il labirinto sono le manette che nasconde sotto un mantello, per il Georg Vittorin di Tempo di spettri il labirinto è la voglia di vendetta, per l'Adalbert von Yosch und Klettenfeld di Il maestro del Giudizio universale il labirinto è l'arte del delitto. Tutti ignorano di vagare in prigioni a cielo aperto. E noi li guardiamo dall'alto, osserviamo le loro grottesche e inutili evoluzioni destinate al fallimento.
Ecco, dall'alto. Il modo migliore per apprezzare un labirinto è guardarlo dall'alto, dalla posizione privilegiata di chi è libero. Libero di testa, soprattutto. Perché il peggiore (o migliore) dei labirinti è quello che abbiamo in testa. Dove va a finire, simbolicamente, Jack Torrance, lo scrittore in cerca d'ispirazione, quindi di salvezza, di Shining? Dove va a parare, al climax della sua follia distruttiva e autodistruttiva che monta nel parossistico e labirintico Overlook Hotel? (Da notare che overlook può valere sia per «trascurare, lasciarsi sfuggire», sia per «guardare dall'alto, dominare»: rieccole, le due anime del labirinto, l'assenza di chi è all'interno e la visione da parte di chi è fuori.) Proprio lì avviene la dissoluzione di Torrance: nel labirinto reso ancora più arduo dalla neve, privo di punti di riferimento che non siano le orme del piccolo Danny il quale, scaltro come un Teseo, cammina all'indietro spezzando il filo di Arianna del suo papà assassino.
Ma è anche una questione di grandezze, spaziali e temporali. Quando le distanze si allungano e i tempi si dilatano, il labirinto assume le modalità dell'avventura. Ad esempio l'avventura di Ulisse, che forse sarebbe davvero un Nessuno, come dice a Polifemo, se non fosse eterodiretto dalla tela (la tela come insieme di fili...) della fedelissima Penelope. Oppure l'avventura di Fernando Pessoa nella folla anonima dei suoi molteplici eteronimi. O ancora l'avventura fra i propri incubi che Hieronymus Bosch registra, come un copista medievale di bestiari, su tele e pannelli. Il labirinto è un giardino di delizie grottesche, dove la sindrome di Stendhal s'intreccia a quella di Stoccolma, dove cioè la fascinazione delle forme e dei colori si somma a quella dell'essere rapiti, inghiottiti in una dimensione enigmatica. Il labirinto come esperienza intellettuale, dunque, da Dante in giù e prima di Dante.
Fino a risalire al dilemma espresso da San Paolo nella Lettera ai Filippesi: «Sono messo alle strette infatti tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; d'altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne».«Il più bel trucco del Diavolo - secondo Baudelaire - sta nel convincerci che non esiste». E se i labirinti fossero l'alfabeto del Diavolo? Allora sì sarebbe impossibile uscirne.
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