La fotografia delle due Leghe sta tutta nel passaggio di consegne tra vecchio e nuovo governo andato in scena ieri tra Palazzo Chigi e il Viminale. Due istantanee che certificano quanto personalmente e politicamente siano distanti Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti. Il primo, infatti, sceglie di disertare la stretta di mano al ministero dell'Interno con il suo successore, l'ex prefetto di Milano Lucia Lamorgese. Il secondo, invece, si presenta come da prassi nella Sala dei Galeoni per la cerimonia della campanella. E lo fa con il sorriso di chi è consapevole quanto la forma, a volte, coincida con la sostanza. Giorgetti si presta pure alle foto di rito e stringe la mano prima a Giuseppe Conte e poi al suo successore sulla poltrona di sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Riccardo Fraccaro. Due con i quali raramente è andato troppo d'accordo.
Due scene che raccontano molto di una Lega che nonostante 14 mesi di governo resta ancora saldamente ancorata alla piazza e molto di lotta, con il solo Giorgetti a cogliere senso e importanza del saper stare a tavola. Già, perché Salvini sembra continuare a ripetere gli stessi errori che in questo ultimo anno e passa lo hanno isolato da tutto. Una cosa, infatti, è voler ridiscutere l'Europa, altra è fargli una guerra scomposta e urlata al punto dal rimanere isolato e senza interlocutori. D'altra parte, dopo un anno in cui il refrain è quello di accusare il presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker di essere un «ubriacone», ci sta che il diretto interessato non sia troppo incline al confronto. Ed è un po' questo il termometro delle relazioni tenute dal vicepremier leghista non solo con Bruxelles, ma pure con il Vaticano, le diplomazie di Stati Uniti e Russia, il mondo dell'associazionismo, i sindacati e chi più ne ha più ne metta. Tutti pezzi che gli sono rovinati addosso alla prima occasione, quando Salvini ha fatto la gigantesca sciocchezza di aprire una crisi al buio. Insomma, la piazza e l'essere «di lotta» è fondamentale, ma non sempre basta.
L'ex titolare del Viminale, però, sceglie di continuare per la sua strada. Diserta il passaggio di consegne al ministero, preferendogli il fresco del Trentino in compagnia della figlia. E ovviamente si concede la quotidiana diretta Facebook per «arringare» i suoi contro il «governo dei poltronari». Il ritornello è lo stesso identico degli ultimi giorni: «La gente mi dice che ho coraggio», «lavorerò come un matto per vincere», perché «ce l'hanno impedito solo con un rigore inesistente fischiato dall'arbitro». Il tutto, ovviamente, detto «con il sorriso». Che, a dire il vero, è meno disteso e rilassato di tre settimane fa, forse provato dalla consapevolezza che è stato lui stesso a prendere la palla con le mani nel bel mezzo dell'area di rigore. Un fallo così clamoroso che non c'è stato neanche bisogno del Var.
Dopo 14 mesi da vicepremier e ministro dell'Interno, dunque, Salvini è pronto a tornare all'opposizione dura e pura. Sui social e nelle piazze. L'appuntamento è per lunedì mattina davanti Montecitorio, proprio quando il governo è atteso per il voto di fiducia della Camera. «Ci sarà un presidio senza bandiere, aperto agli italiani che sono schifati e si vergognano di questo poltronificio», ripete il segretario della Lega. Che, piccolo dettaglio, omette di precisare che la manifestazione in questione è stata convocata giorni fa da Giorgia Meloni. E infatti la leader di Fratelli d'Italia non gradisce la curiosa amnesia e si premura di ringraziare Salvini per l'adesione.
«Sono contenta che abbia deciso di partecipare alla nostra manifestazione», puntualizza. Uno scambio che certifica come gli equilibri stiano già cambiando. Solo un mese fa il leader della Lega non si sarebbe mai messo a rincorrere la Meloni. Nemmeno sotto tortura.
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