Anche l’America ha già prenotato la terapia messa a punto nei laboratori dell'Università di Camerino da un gruppo di ricerca coordinato dal professor Giacomo Rossi, 52 anni, medico veterinario livornese della Scuola di Bioscienze e Medicina veterinaria di Unicam. Nella nostra intervista, il professore ci ha raccontato come è arrivato al farmaco, partendo dal coronavirus dei gatti.
Professore, può spiegarci come è arrivato a pensare ad un possibile vaccino per il Covid-19 partendo dai gatti?
“Da circa due anni mi sto interessando della risposta immunitaria del gatto affetto da FeCov, il coronavirus felino, con particolare riguardo alla risposta mediata dai macrofagi, le cellule che sono deputate a "mangiare" gli agenti patogeni che ci infettano. Nel gatto con FeCoV, ci siamo accorti che se la funzione di queste cellule non è perfetta o è incompleta, il virus può attraversare l'intestino, sede dove normalmente risiede, generalizzare nell'organismo e causare una grave malattia, per la quale non c'è vaccino né terapia specifica ed il cui esito è praticamente quasi sempre la morte dell'animale infetto. Studiando il meccanismo con cui il virus FeCoV entra nelle cellule, appena sono stati resi noti i risultati della struttura del recettore Covid-19 dai colleghi cinesi, ho fatto le debite comparazioni nella struttura proteica ed aminoacidica ed ho visto che il coronavirus Covid-19 differisce da altri coronavirus, avendo vari siti di glicosilazione in più. Questi siti sono quelli i cui alcuni zuccheri semplici si legano all'amminoacido Asparagina terminale di una proteina trans-membrana. Ho pensato quindi che questa differenza potesse essere alla base della maggiore virulenza del Covid-19. Ho anche pensato che, eliminando questi siti, si possa ridurre in maniera veramente importante il legame del coronavirus Covid-19, alle cellule dell'ospite, e quindi in pratica ridurre in maniera sensibile l'impatto dell'infezione e dei segni clinici di malattia”.
Che legame c'è tra il coronavirus felino e quello umano?
“Fanno parte entrambi della stessa famiglia virale ed hanno alcune fasi del ciclo replicativo sovrapponibili, compresa la modalità con cui i loro "spikes " (le punte della corona del coronavirus, ndr) si legano ai recettori delle cellule ospite. Hanno però, come dicevo prima, anche tanti aspetti peculiari che li rendono distinti e che ci fugano la paura che i nostri gatti possano essere organismi "amplificatori" dell'infezione domestica. Ovvero che possano contagiarci”.
Come è arrivato a brevettare questo farmaco?
“Il protocollo l'ho sviluppato in stretto contatto e scambio di idee con il Dott. Remigio Piergallini, Medico di San Benedetto e collaboratore del Dott. Bellini. Il Dott Bellini, noto italo-canadese che è stato un antesignano delle terapie anti-virali nel mondo (suo è il primo farmaco anti-retrovirale per l'AIDS uscito nella seconda metà degli anni ottanta, ndr) venuto a conoscenza del protocollo ha subito manifestato l'interesse di poterlo sviluppare. Quindi lo ha portato negli Stati Uniti dove nel giro di 48 ore il protocollo è stato brevettato. E dove sono già iniziati i trial clinici. Devo dire inoltre che anche in passato il Dott. Bellini aveva già collaborato per progetti importanti con UNICAM, quindi non è nuovo a collaborazioni con il nostro Ateneo”.
I suoi studi sul coronavirus Covid19 sono stati velocissimi, da quando ha iniziato a farli?
“Praticamente le fasi comparative del mio studio, quello di valutazione comparata tra recettore dei coronavirus animali e recettori di Covid-19, li ho fatti negli ultimi tre mesi, da quando cioè sono stati disponibili in rete i dati dei colleghi cinesi che hanno fatto un'ottima modellistica tridimensionale del recettore. Questi risultati, così ‘velocizzati’, sono il frutto della forte condivisione che facciamo, a livello globale, dei risultati scientifici che ciascuno di noi ricercatori ottiene nel proprio laboratorio. Si costituisce quindi una sorta di laboratorio ‘globale’ che fa progredire più spedita la ricerca”.
Ha fatto una breve sperimentazione sugli animali?
“No, sarebbe stato inutile, se si eccettua per il furetto, gli animali non sono un buon modello di studio per il Covid-19, ed inoltre, di principio, credo che alla sperimentazione animale si debba ricorrere quando non ci sono modelli di studio alternativi”.
E' vero che in America si sono interessati ai suoi brevetti?
“Come dicevo, l'entrata in gioco del Dott. Bellini, la cui società ha sede in Canada, a Montreal, ha immediatamente cambiato la ‘geografia’ del mio studio. Il Dott. Bellini ha molti rapporti con cliniche canadesi e statunitensi che inizieranno a brevissimo i trials clinici”.
L’essere partiti dal coronavirus felino potrebbe portare la gente a pensare che gli animali possono essere veicoli di infezione per gli umani, anche se il coronavirus felino è molto diverso dal Covid-19?
“Certo, fa bene a ribadirlo, il Covid-19 richiede un apparato recettoriale per assorbirsi alla cellula dell'ospite che è totalmente particolare (recettore ACE2/Serina Proteasi 2) e che il gatto non possiede. Il gatto, come tutti gli animali ma anche le ‘cose’ inanimate, in un contesto di forte carica virale come un ambiente infetto, può divenire un vettore ‘passivo’ di virus come appunto un oggetto, o qualsiasi altra cosa inanimata, quindi banalmente prenderlo, ma non ha un ruolo attivo come ‘recettivo amplificatore’ dell'infezione, quindi passarlo agli umani”.
Secondo lei che speranze ci sono per questo farmaco?
“Ovviamente io nutro in questo protocollo grandi speranze perché basato su tre molecole che agiscono in maniera
sinergica ma in tempi successivi, una dopo l'altra, e credo che avrà un buon effetto sul paziente. Se i trials andranno bene, i tempi per averlo ‘in corsia’ potrebbero essere relativamente brevi: un mese, od un mese e mezzo”.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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