La lettera, scritta in un italiano zoppicante, porta la data del 10 luglio 1918. Il fante Alfonso Basile non sa che la guerra è ormai alle battute finali. Il soldato ragazzino, classe 1899, sa solo che lui e tanti giovani della sua età hanno fatto il loro dovere, hanno combattuto in condizioni proibitive e, in qualche modo, hanno fermato il nemico. Così Alfonso scrive ai genitori annunciando che gli è stata concessa una licenza premio e che presto, molto presto, tornerà a casa in Puglia, a Troia, per abbracciare papà Michele e mamma Enza. È raggiante Alfonso e in quelle poche righe lo fa capire: «Genitori carissimi, oggi parte il sergente che farà 6-7 giorni, poi partirò anch'io ma invece di 10 giorni me ne farò 15, con altri 5 di premio in più. Perché con tutti i soldati dell'Armata del Grappa abbiamo resistito eroicamente al nemico».
Troia è solo un puntino fra le montagne del Subappennino Dauno, in provincia di Foggia, ma è anche il paese natale di Antonio Salandra il presidente del Consiglio che ha voluto portare a tutti i costi l'Italia in guerra, facendo leva sulla piazza e mettendo fuori gioco il prudente Giolitti e il partito della neutralità. Salandra è nato a Troia, ha studiato nella vicina Lucera, si è laureato a Napoli nell'ambiente dell'idealismo che fa capo a Bertrando Spaventa e Francesco De Sanctis, poi ha intrapreso una carriera politica di primo ordine a Roma, senza tagliare le radici pugliesi e meridionali. Un conservatore che si considera erede della Destra storica, al potere fra 1861 e 1876. Ma tutte queste cose i suoi concittadini non le sanno. La vita in quel piccolo borgo a quei tempi è grama: miseria ed emigrazione. E poi c'è la guerra: Michele ed Enza abitano a non più di 200 metri da casa Salandra, ma hanno altri problemi. Due figli al fronte: Amedeo e appunto Alfonso. Michele è un venditore di tessuti, il giovanissimo intraprendente Alfonso ha trovato lavoro, prima di partire per il fronte nel '17, nell'impresa che produce e distribuisce l'energia elettrica per la zona. Ha familiarità con i motori a olio pesante, tipo diesel. E ha anche svolto il compito di guardafili per la Società Telefoni di Troia. Perché nella vita non si butta via niente, il 26 maggio 1918 ha scritto ai superiori chiedendo di raggiungere il fratello Amedeo al Terzo genio telegrafisti. Intanto è lassù sulle montagne, a vedersela con gli austriaci. Con la testa però è già a casa, nel paese del Nero, un vino che oggi conosce una certa celebrità, e della cattedrale del superbo rosone romanico che da solo vale il viaggio. Chissà se il leader politico e il soldatino si sono mai incontrati sul Corso. Chissà. Se non è successo non accadrà più.
Una battaglia, un'unghiata del destino e Alfonso da ingrossare le file dei caduti, 600mila alla fine del conflitto. Altro che licenze e trasferimenti. Con ogni probabilità il giovane è vittima del gas austriaco. Forse, ma sono ipotesi basate su racconti incerti, non ha fatto in tempo ad indossare la maschera o forse se le era appena tolta, dopo un attacco, perché quell'armamentario è ingombrante e fastidioso e Alfonso non ha calcolato che il vento ti tradisce in un attimo e ti uccide. Michele riceve la lettera col timbro del 10 luglio poi, non sappiamo quando, arriva la notizia che Alfonso non c'è più. Gli sarà stata portata sicuramente inguantata nella marmorea retorica dell'epoca, ma il cordoglio di Stato non lo consola. E poi rispetto a migliaia e migliaia di padri disperati come lui, Michele può almeno costruirsi un nemico in carne e ossa: Antonio Salandra che ha la responsabilità morale di quel che è successo e che tutti in paese venerano per la strepitosa ascesa. Lui no, nelle foto di famiglia gelosamente conservate, Michele è un signore fiero e la sua virilità è tutta in quei baffi che svettano anche nei ritratti del compaesano Salandra.
La guerra finalmente finisce. Amedeo, che poi andrà a vivere negli Stati Uniti, è salvo, Alfonso soldatino della Terza armata di fanteria, numero di matricola 16446, no. La sua memoria è affidata a una lapide, posta su uno dei primi gradoni del Sacrario di Redipuglia. Alfonso è anche un dolore che non si riesce a controllare, un dolore che uccide anno dopo anno mischiato, come spesso capita, a malattie, povertà, necrologi senza fine. Nel 1919 l'epidemia di spagnola si porta via Angiolina vent'anni, sorella di Alfonso e Amedeo. E ancora prima, nel 1914, se n'è andata Marietta, la primogenita, che non ha retto a una gravidanza difficile. La mamma Enza, sopraffatta da troppe disgrazie, muore di crepacuore, come si diceva all'epoca, a 57 anni. E allora, intorno al 1920, Michele Basile bisnonno di chi scrive questo articolo, decide di regolare i conti con la Storia. La Storia che si è fermata a pochi metri dalla sua modesta casa. Si apposta nei pressi del palazzo in cui Salandra vive quando non è nella capitale. L'obiettivo è uno solo: ammazzare il nemico. Come Bresci ha fatto fuori il re e Gavrilo Princip l'arciduca Francesco Ferdinando, per quel che valgono i paragoni. Ma qui non c'è alcuna ideologia, c'è solo il dramma: troppe lacrime in una famiglia distrutta dai lutti.
Perlustrazioni e prove generali dell'agguato vanno avanti per giorni. Forse per settimane. Non conosciamo i dettagli. Sappiamo che ci sono altri due figli da tutelare: Agnese, classe 1904, Leonardo ancora più piccolo. La rabbia comincia a confrontarsi con la ragione e Michele inizia a riflettere sulle conseguenze inevitabili cui andrebbe incontro: «Papà - ha sempre raccontato Agnese al figlio Armando Zurlo che ha pubblicato tutta la storia sul periodico locale l'Aria di Troia - voleva ammazzare Salandra, ma poi cominciò a pensare che lui, cristiano, non poteva macchiarsi del sangue altrui e poi ancora si preoccupava immaginando che cosa sarebbe successo, con lui in carcere, a me e a Leonardo». Michele abbandona il progetto più grande di lui. Qualche anno ancora e pure lui scompare. Amedeo invece vivrà a lungo. Ma il destino, che è stato benevolo e l'ha risparmiato, gli chiederà il conto vent'anni dopo quando suo figlio Ralph, Raffaele, questa volta avvolto nella divisa a stelle e strisce, troverà la morte in Estremo Oriente contro i giapponesi.
«Nella jungla», ripeteranno per decenni i vecchi compaesani, quasi a indicare un luogo misterioso e maligno. Destini diversi e uguali. La foto del soldatino morto sul Grappa: un ragazzo in posa, con l'uniforme, il berretto e la mano poggiata sul fianco.
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