Cronache

Il miracolo Bergamo, capitale del lavoro

C’è un’Italia che si è saputa reinventare. Così la provincia lombarda ha solo il 4,1% di senza lavoro. L'ecatombe dei lavoratori: la disoccupazione sale al 9,8%

Il miracolo Bergamo,  capitale del lavoro

Bottoni non se ne fanno più, perché i grandi bottonifici del mondo ormai stanno a qualche oceano di distanza. Tappeti e mo­quette sempre meno, perché il tessile deve buttarsi sui tessuti raf­finati e complessi: i prodotti tradi­zionali, pure quelli, li fanno a bas­so costo in mille parti del mondo. L’agricoltura, non ne parliamo: ormai è una riserva indiana che vale il 3 per cento dell’attività tota­le. Vecchie glorie al tramonto e nuove vocazioni al galoppo. La verità è che Bergamo sta imparando a cambiare mestiere.

A questa traumatica riconversione, in fon­do, si deve il podio assegnato dall’Istat nella sanguinosa classifica della disoccu­pazione: con il suo invidiato 4,1 per cen­to, Bergamo è la più virtuosa in Lombar­dia, terza a livello nazionale subito dopo Bolzano e Cuneo. Per rigore di cronaca, va precisato che i sindacati contestano il dato idilliaco. Sostengono che non tiene conto delleul­time espulsioni dall’industria manifattu­riera, che la vera cifra da considerare sa­rebbe quella dei 62mila iscritti ai Centri per l’impiego in data 31 dicembre 2011.

Altro che i 20mila disoccupati conteggia­ti dall’Istat. È il solito labirinto in cui ci si ficca parlando di disoccupazione: cia­scuno guarda da una finestra diversa, di­stinguendo tra disoccupati veri, disoccu­pati che non cercano lavoro, lavoratori in mobilità, esodati in attesa e via compli­cando. Discorso però che vale a livello nazionale, non solo per Bergamo. E co­munque sia, neppure il più esacerbato delegato Fiom oserebbe mai negare che questa terra goda di una certa salute, no­nostante nuoti in una palude cosmica. Bi­sognerebbe chiedere ai connazionali di Lecce (15,6 per cento), di Crotone (16,3), di Agrigento (17,7), dell’Ogliastra (17,6), se Bergamo sta bene o male. Su questo bisogna ragionare, in que­sta interminabile stagione di tenebre. Che poi anche i distretti di vertice, da Bol­zano a Cuneo, per arrivare a Bergamo, sti­ano lottando duramente contro duemila difficoltà, nessuno può e deve negarlo. Però c’è modo e modo di stare dentro la tormenta: un conto è sorbirsela in piumi­no d’oca e doposcì, un altro è ritrovarsi in brache di tela. Il merito di Bergamo, che pure ha l’in­flazione calda, che pure ha cementifica­to troppo, che pure respira un’aria feti­da, che pure è molto indietro con strade e ferrovie, è non aver mai perso la voglia di lottare.

Anch’essa chiusa all’angolo dal­la crisi, ha incassato le sue sonore sberle, ha vistosamente barcollato, ma non s’è lasciata andare. Anzi, ha cominciato a chiudere bene la guardia, per poi riparti­re con qualche bel colpo, che già sta la­sciando il segno. Si sono rimessi in gioco tutti, grandi e piccoli: dai colossi come Tenaris e Italcementi, alle eccellenze di settore come la Brembo e la Gewiss, il Co­tonificio Albini e il Gruppo Radici, la Fop­pa Pedretti e la Holding Percassi.

Con lo­ro, 95.987 imprese che tutti i giorni conti­nuano indefesse a reagire, tra banche tir­chie, enti pubblici che non pagano i debi­­ti, potenze emergenti dagli occhi a man­dorla e dalla concorrenza sleale. La vera forza si chiama varietà. L’eco­nomia bergamasca è talmente arlecchi­nata, ormai, che riesce ad attutire gli ur­ti: per un settore che scende, ce ne sono due che salgono. In generale, l’industria mette assieme il 53 per cento del risulta­to globale: in questo campo, il comparto più ampio e più anziano resta l’edile con il 15 per cento (chi non li conosce, a Mila­no, i famosi muratori delle valli bergama­sche, sveglia alle quattro, tre ore di viag­gio sui pulmini stipati e via pedalare nei grandi cantieri metropolitani). Seguono meccanica, tessile, chimica. Tutti hanno imparato a cambiare, o co­munque a reinventarsi, il mestiere. Agli industriali non è più bastato costruire macchinari efficienti: hanno puntato sul­la ricerca, ora visibile a tutti lungo l’auto­strada, pochi metri dal casello, con quel Kilometro Rosso che custodisce labora­tori e intelligenze di livello assoluto.

Il terziario, 44 per cento dell’econo­mia provinciale, ci ha dato dentro (pure troppo) con centri commerciali e servi­zi, ma soprattutto con l’aeroporto di Orio, ormai quarto d’Italia. E persino gli insaziabili impresari edili, finita la gran­de indigestione delle costruzioni a tappe­to, stanno lentamente riciclandosi in ot­timi restauratori di vecchiumi inutilizza­ti. Tutti, questa la novità nella famosa (e un po’ stucchevole) «provincia opero­sa », tutti si sono rassegnati alla grande mutazione genetica: meno mani, meno fatica, più cervello. Diciamolo: se ne sen­tiva un disperato bisogno. Dall’alto dei suoi uffici di Città Alta, Stefano Paleari è il più giovane rettore ita­liano di una giovane università italiana. Guardando giù, alla realtà che il suo Ate­neo studia con strettissime connessioni, si è fatto questa idea: «Spiegare perché Bergamo vive una situazione meno pe­sante di altre zone? Tra i tanti, mi gioco questi due motivi. Primo: qui c’è da sem­pre un grande pragmatismo nei rapporti sociali, al di là delle divisioni politiche. Qui si preferisce la soluzione del proble­ma all’esasperazione del problema. Non si aspetta che qualcuno lo risolva dall’alto o da fuori: lo si affronta in prima persona.

E poi il secondo:lo sviluppo del­­l’aeroporto e dell’università, i due gran­di contrappesi, commerci e cultura. Ne­gli ultimi dieci anni, lo scalo ha raddop­piato i passeggeri (ora 8 milioni), l’Ate­neo gli iscritti (ora 15mila). È un apporto di novità, di idee, di opportunità che ha fatto solo bene a questa terra. Il tempo di­rà quanto » .

Il tempo dirà quanto, e come, Berga­mo riuscirà a restare ciò che in fondo, nei periodi d’oro e nei periodi tetri, è sempre stata per i bergamaschi di buona volon­tà: certo non una terra promessa, certo non una terra perfetta, ma almeno il mi­gliore dei mondi possibili.

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