Bottoni non se ne fanno più, perché i grandi bottonifici del mondo ormai stanno a qualche oceano di distanza. Tappeti e moquette sempre meno, perché il tessile deve buttarsi sui tessuti raffinati e complessi: i prodotti tradizionali, pure quelli, li fanno a basso costo in mille parti del mondo. L’agricoltura, non ne parliamo: ormai è una riserva indiana che vale il 3 per cento dell’attività totale. Vecchie glorie al tramonto e nuove vocazioni al galoppo. La verità è che Bergamo sta imparando a cambiare mestiere.
A questa traumatica riconversione, in fondo, si deve il podio assegnato dall’Istat nella sanguinosa classifica della disoccupazione: con il suo invidiato 4,1 per cento, Bergamo è la più virtuosa in Lombardia, terza a livello nazionale subito dopo Bolzano e Cuneo. Per rigore di cronaca, va precisato che i sindacati contestano il dato idilliaco. Sostengono che non tiene conto delleultime espulsioni dall’industria manifatturiera, che la vera cifra da considerare sarebbe quella dei 62mila iscritti ai Centri per l’impiego in data 31 dicembre 2011.
Altro che i 20mila disoccupati conteggiati dall’Istat. È il solito labirinto in cui ci si ficca parlando di disoccupazione: ciascuno guarda da una finestra diversa, distinguendo tra disoccupati veri, disoccupati che non cercano lavoro, lavoratori in mobilità, esodati in attesa e via complicando. Discorso però che vale a livello nazionale, non solo per Bergamo. E comunque sia, neppure il più esacerbato delegato Fiom oserebbe mai negare che questa terra goda di una certa salute, nonostante nuoti in una palude cosmica. Bisognerebbe chiedere ai connazionali di Lecce (15,6 per cento), di Crotone (16,3), di Agrigento (17,7), dell’Ogliastra (17,6), se Bergamo sta bene o male. Su questo bisogna ragionare, in questa interminabile stagione di tenebre. Che poi anche i distretti di vertice, da Bolzano a Cuneo, per arrivare a Bergamo, stiano lottando duramente contro duemila difficoltà, nessuno può e deve negarlo. Però c’è modo e modo di stare dentro la tormenta: un conto è sorbirsela in piumino d’oca e doposcì, un altro è ritrovarsi in brache di tela. Il merito di Bergamo, che pure ha l’inflazione calda, che pure ha cementificato troppo, che pure respira un’aria fetida, che pure è molto indietro con strade e ferrovie, è non aver mai perso la voglia di lottare.
Anch’essa chiusa all’angolo dalla crisi, ha incassato le sue sonore sberle, ha vistosamente barcollato, ma non s’è lasciata andare. Anzi, ha cominciato a chiudere bene la guardia, per poi ripartire con qualche bel colpo, che già sta lasciando il segno. Si sono rimessi in gioco tutti, grandi e piccoli: dai colossi come Tenaris e Italcementi, alle eccellenze di settore come la Brembo e la Gewiss, il Cotonificio Albini e il Gruppo Radici, la Foppa Pedretti e la Holding Percassi.
Con loro, 95.987 imprese che tutti i giorni continuano indefesse a reagire, tra banche tirchie, enti pubblici che non pagano i debiti, potenze emergenti dagli occhi a mandorla e dalla concorrenza sleale. La vera forza si chiama varietà. L’economia bergamasca è talmente arlecchinata, ormai, che riesce ad attutire gli urti: per un settore che scende, ce ne sono due che salgono. In generale, l’industria mette assieme il 53 per cento del risultato globale: in questo campo, il comparto più ampio e più anziano resta l’edile con il 15 per cento (chi non li conosce, a Milano, i famosi muratori delle valli bergamasche, sveglia alle quattro, tre ore di viaggio sui pulmini stipati e via pedalare nei grandi cantieri metropolitani). Seguono meccanica, tessile, chimica. Tutti hanno imparato a cambiare, o comunque a reinventarsi, il mestiere. Agli industriali non è più bastato costruire macchinari efficienti: hanno puntato sulla ricerca, ora visibile a tutti lungo l’autostrada, pochi metri dal casello, con quel Kilometro Rosso che custodisce laboratori e intelligenze di livello assoluto.
Il terziario, 44 per cento dell’economia provinciale, ci ha dato dentro (pure troppo) con centri commerciali e servizi, ma soprattutto con l’aeroporto di Orio, ormai quarto d’Italia. E persino gli insaziabili impresari edili, finita la grande indigestione delle costruzioni a tappeto, stanno lentamente riciclandosi in ottimi restauratori di vecchiumi inutilizzati. Tutti, questa la novità nella famosa (e un po’ stucchevole) «provincia operosa », tutti si sono rassegnati alla grande mutazione genetica: meno mani, meno fatica, più cervello. Diciamolo: se ne sentiva un disperato bisogno. Dall’alto dei suoi uffici di Città Alta, Stefano Paleari è il più giovane rettore italiano di una giovane università italiana. Guardando giù, alla realtà che il suo Ateneo studia con strettissime connessioni, si è fatto questa idea: «Spiegare perché Bergamo vive una situazione meno pesante di altre zone? Tra i tanti, mi gioco questi due motivi. Primo: qui c’è da sempre un grande pragmatismo nei rapporti sociali, al di là delle divisioni politiche. Qui si preferisce la soluzione del problema all’esasperazione del problema. Non si aspetta che qualcuno lo risolva dall’alto o da fuori: lo si affronta in prima persona.
E poi il secondo:lo sviluppo dell’aeroporto e dell’università, i due grandi contrappesi, commerci e cultura. Negli ultimi dieci anni, lo scalo ha raddoppiato i passeggeri (ora 8 milioni), l’Ateneo gli iscritti (ora 15mila). È un apporto di novità, di idee, di opportunità che ha fatto solo bene a questa terra. Il tempo dirà quanto » .
Il tempo dirà quanto, e come, Bergamo riuscirà a restare ciò che in fondo, nei periodi d’oro e nei periodi tetri, è sempre stata per i bergamaschi di buona volontà: certo non una terra promessa, certo non una terra perfetta, ma almeno il migliore dei mondi possibili.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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