S abato scorso, nello splendido scenario della Basilica di San Giovanni in Laterano, a uno dei cardinali più estroversi della Chiesa italiana, che gli chiedeva lumi sul futuro del governo gialloverde, il ministro Giovanni Tria, reduce dall'ennesima baruffa, questa volta su Bankitalia, aveva risposto: «Così non si può più andare avanti!». Fin qui lo stato d'animo dell'attuale responsabile dell'Economia. Quello che invece doveva essere il «ministro ombra» del dicastero, cioè Paolo Savona, deluso e amareggiato, alla fine ha mollato. Dieci giorni fa aveva spiegato ad un altro influente porporato: «Avevo l'ambizione di fare come Truman, un piano Marshall del Nord per il meridione, ma con questi non si riesce a combinare granché: per cui ho sempre la lettera di dimissioni in tasca. Pronta all'uso...». Alla fine non è stato necessario: per esorcizzare l'immagine dell'uomo simbolo del governo del «cambiamento» che manda tutti a quel paese sbattendo la porta, Savona è stato paracadutato alla Consob. Così il professore si è risparmiato il calvario che attende il governo: il meno davanti alle cifre del Pil; la maglia nera per essere l'unico Paese Ue in recessione; la sequenza primaverile delle agenzie internazionali (da Moody's, a S&Poor's a Fitch) in procinto di abbassare il rating italiano.
Altri aneddoti sull'atmosfera che aleggia sul governo. Giorni fa, in una cena milanese, a casa del finanziere Francesco Micheli, anche il presidente del Coni, Giovanni Malagò, ha trovato il coraggio di dire ciò che pensa della nuova classe di governo: «Ormai nei meeting internazionali in cui c'è in palio l'organizzazione degli appuntamenti sportivi principali, non ce li portiamo appresso. Sono gaffeur. Pensate allo scontro con la Francia: i membri francesi nei comitati olimpici sono perlopiù ex sportivi, con un forte amor patrio. D'ora in avanti li avremo sempre nemici...». E, come se non bastasse, ci sono i primi pentimenti: l'editorialista del Corriere, Ernesto Galli della Loggia, ammette di aver votato 5stelle e recita pubblicamente un laico «mea culpa». E, naturalmente, c'è nel governo chi, non sapendo quanto durerà la pacchia, ha visto bene di fare subito il pieno di «collaboratori». Il sottosegretario alle Pari opportunità, Vincenzo Spadafora, ha messo in piedi un team di supporto a dir poco «affollato»: venti persone. Più o meno quello che ha il presidente Usa alla Casa Bianca.
Anche se Matteo Salvini, Giggino Di Maio e Giuseppe Conte ripetono all'unisono che l'esecutivo durerà cinque anni, ci sono fenomeni comportamentali, con consolidate basi scientifiche, che li contraddicono: dai primi abbandoni, figli dello stesso istinto che spinge i topi a lasciare la nave che affonda; a quel naturale automatismo che aiuta, di fronte ad una debolezza sempre più marcata di un governo, gli scontenti a riacquistare voce, i deboli ad osare. È un meccanismo psicologico o, meglio, che ha origini «pre-politiche», ma che ha conseguenze politiche, che vede il destino di un governo, che si ritrova su un piano inclinato, scivolare inesorabilmente verso il suo epilogo, poco importa se fra due o quattro mesi. Sismografo sensibilissimo dei cambi d'umore è il carrozzone Rai: tant'è che la «striscia» dopo il Tg1 data per certa a Maria Giovanna Maglie, «sovranista» convinta, è tornata in alto mare.
Siamo alle convulsioni, ai nervi tesi. Come avviene a tutti i governi che danno segni di debolezza. Conte, paragonato «a un burattino» nel Parlamento di Strasburgo, ha una reazione stizzosa che, visti i rapporti con il governo francese, è un'altra scivolata: «i gilet gialli sono il nuovo». Più o meno come quel deputato grillino, Giuseppe D'Ambrosio, che ieri ha messo in subbuglio l'aula di Montecitorio rivolgendo il segno delle manette - l'«evoluzione 2.0» del cappio leghista dello scorso secolo - ai parlamentari del Pd. Eh sì, il fianco debole dell'attuale maggioranza, cioè i grillini, sembrano pugili suonati. Giggino Di Maio ha risposto alla sconfitta in Abruzzo con la formula di rito delle relazioni con cui i segretari Dc fronteggiavano gli insuccessi: «Riorganizzeremo il partito al centro e nei territori». Roberta Lombardi, per non essere da meno, ha tirato fuori la polemica sul «doppio incarico», altro «cult» democristiano: «O fa il vice premier, o il leader politico». Roba arcaica per far risalire il morale al movimento. «Abbiamo fallito»: ripete da giorni la senatrice Paola Nugnes, in piena crisi esistenziale. Mentre Francesco Silvestri, vice presidente dei deputati 5stelle, ha il coraggio di dire la verità: «Siamo diventati antipatici». La stessa diagnosi che fece l'inventore di «Eataly», Oscar Farinetti, per spiegare la parabola discendente di Renzi.
Talmente «antipatici» che l'altro giorno Matteo Salvini, per spronare i suoi parlamentari ad essere più solidali con i grillini in crisi, è dovuto ricorrere alla galleria dei «mostri» secondo i codici leghisti: «Comunque Di Maio è cento volte meglio di Casini e Fini!». Magra consolazione, anche perché in questa condizione il governo è votato alla paralisi: sulla Tav si va avanti a relazioni e contro-relazioni, ma non si decide niente; più o meno la stessa aria di scontro tira sull'«autonomia» di Veneto e Lombardia. Mentre, per superare l'imbarazzo grillino sull'autorizzazione a procedere a Salvini sul «caso Diciotti», il movimento si affiderà alla piattaforma Rousseau. «La piazza mediatica su Salvini si sostituirà a quella di Gerusalemme ironizza l'azzurro Roberto Occhiuto che decise chi crocifiggere tra Gesù e Barabba». Argomenti complicati che saranno resi roventi dalla maratona elettorale di primavera.
«In Sardegna prevede la grillina Giulia Sarti andrà peggio. Come pure in Basilicata. Alle Europee noi andremo male e Salvini avrà il suo exploit. Poi lui si sgonfierà e noi risaliremo».
La speranza è che l'universo politico abbia solo due stelle: Lega e 5stelle. Il calcolo è che non ci sia alternativa. Solo che un Paese «in crisi» un'alternativa se la inventa sempre. Berlusconi ha benedetto la raccolta firme contro il reddito di cittadinanza per incalzare la Lega, per spingerla a divorziare dai grillini: «Io ha detto ai suoi - non sono tipo da banchetti, ma se pensate servano, fateli». Renzi sforna un nuovo libro e, magari, pensa ad imboccare «un'altra strada» diversa dal Pd. E, intanto, Flavio Cattaneo e Luca di Montezemolo fanno una proposta per comprarsi tutti i giornali del gruppo Repubblica.
«Non se ne farà nulla insinua un ministro leghista , ma un'operazione sui giornali nasconde sempre un'operazione politica: Calenda, o qualcun altro che punta al centro». Appunto, il governo c'è ancora, ma tutti pensano al «dopo».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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