Cronache

Morto Nolte, lo storico della guerra civile europea

Lo studioso tedesco interpretò il nazismo come risposta al bolscevismo. Una tesi che scatenò feroci polemiche

Morto Nolte, lo storico della guerra civile europea

Nel 1963 Ernst Nolte pubblicò il volume Der Faschismus in seiner epoche (Il fascismo nella sua epoca), qualche anno dopo tradotto in italiano con un titolo infelice e fuorviante, I tre volti del fascismo. A quell'epoca Nolte aveva quarant'anni, essendo nato nel 1923, e aveva già cominciato a occuparsi di fascismo, sia pure da un'ottica più propriamente filosofica che storica: aveva scritto un bel saggio sulla influenza di Marx e di Nietzsche sul giovane Mussolini e, successivamente, un approfondito studio su Max Weber davanti al fascismo. Era un intellettuale, ancora giovane ma già affermato, che proveniva dagli studi filosofici. Era stato allievo a Friburgo di Martin Heidegger, cui avrebbe dedicato nel 1992 un importante volume, e aveva conseguito il dottorato in filosofia teoretica con Eugen Fink discutendo una tesi sulla dialettica nel pensiero tedesco. Proprio questa formazione filosofica di Nolte ne segnò profondamente il passaggio alla storiografia avvenuto con Der Faschismus in seiner epoche.

Fu, infatti, con questo volume che Nolte entrò a far parte della schiera degli studiosi più autorevoli del fascismo. Egli suggeriva un approccio storiografico diverso dalle linee interpretative correnti, tutte viziate, a suo parere, da pregiudiziali ideologico-politiche e pertanto prive di scientificità. Nella sua visione, il fascismo si presentava come un «fenomeno epocale» che aveva caratterizzato la storia europea nel periodo compreso fra le due guerre mondiali e aveva esercitato un influsso profondo sugli stessi avversari costringendoli a sviluppi paralleli e ripensamenti sulla propria natura e sulle proprie strategie. La definizione che ne forniva era, senza dubbio, nuova e originale: «Il fascismo è antimarxismo che tenta di distruggere l'avversario mediante l'elaborazione di un'ideologia radicalmente contrapposta eppure limitrofa, e l'impiego di mezzi quasi identici eppure dalle caratteristiche proprie, sempre però nei limiti insuperabili dell'autoaffermazione e dell'autonomia nazionali». Questa definizione implicava alcune conseguenze: che senza marxismo non si dà fascismo; che il fascismo è insieme più lontano e più vicino al comunismo di quanto non lo sia l'anticomunismo di marca liberale; che il fascismo ha in sé la tendenza a sviluppare un'ideologia radicale. Questa definizione consentiva di comprendere fino a che punto potessero darsi «graduazioni di fascismo» e permetteva di individuare «differenziazioni e identificazioni», ma appariva allo stesso Nolte non priva delle «debolezze stesse del metodo tipologico». Per superarle egli si propose di integrare l'analisi «tipologica» con l'adozione, in parallelo, del «metodo fenomenologico», cioè di un metodo che consentisse di comprendere i fenomeni storici - nella fattispecie il fascismo - a partire da se stessi, cioè a dire dalla propria ideologia. Muovendo da tali premesse, egli procedette allo studio comparato di tre esperienze chiave - l'Açtion Française, il fascismo italiano e il nazionalsocialismo - considerate come stadi dello stesso fenomeno e analizzate sotto il profilo della storia, della prassi e della dottrina.

A questo volume seguirono molti altri lavori, tra i quali, nel 1968, quello pubblicato in italiano nel 1970 col titolo La crisi dei regimi liberali e i movimenti fascisti scritto con un approccio più propriamente storico. Era, in un certo senso, la prosecuzione del precedente e legava la nascita del fascismo e il suo affermarsi sia alla prima guerra mondiale sia al fenomeno della paralisi, o autoparalisi, del sistema liberale nell'immediato dopoguerra. Proprio l'incapacità di tale sistema di mantenere il passo con lo sviluppo della società civile e di contrastare «la protesta radicale», rivoluzionaria e filobolscevica, ne aveva fatto, secondo Nolte, il «primo presupposto del fascismo». Donde la conclusione: «Non esiste fascismo senza la sfida del bolscevismo».

Una conclusione, questa, che egli avrebbe radicalizzato in seguito, in un nuovo volume, La guerra civile europea 1917-1945. Nazionalsocialismo e bolscevismo (1987, tradotto in italiano nel 1988). In questo denso saggio, che rappresenta il punto di arrivo della sua ricerca storica, Nolte, con ricchezza di argomentazioni, sostenne, fra l'altro, che il nazionalsocialismo era stato reazione o conseguenza dell'avvento del comunismo in Russia e che lo «sterminio di classe» messo in opera dai bolscevichi era stato il «prius logico e fattuale» dello sterminio degli ebrei da parte dei nazisti. L'opera era nata, invero, dall'esigenza di «tematizzare» sia la rivoluzione russa sia il rapporto fra bolscevismo e nazionalsocialismo visto come un rapporto di «simmetria nell'opposizione» ed era stata, in qualche misura, concepita come sviluppo delle tesi che, anticipate l'anno precedente in un articolo che aveva dato origine alla cosiddetta Historikerstreit, ovvero la controversia degli storici sul «passato che non vuole passare», avevano provocato polemiche ingiuste e ingenerose, se non addirittura diffamatorie, nei confronti dello studioso. Le polemiche erano state innescate dalla replica di Jürgen Habermas e avevano coinvolto i maggiori studiosi del nazionalsocialismo, da Fest a Broszat, da Mommsen a Hillgruber. Erano volate anche parole grosse: Elie Wiesel, per esempio, era giunto a parlare della «banda dei quattro» riferendosi, oltre che a Nolte, ad altri tre storici, mentre Marcel Reich-Ranicki era arrivato a definire Nolte una «figura torbida e spregevole della storia contemporanea tedesca».

Quando ebbe fra le mani il testo della prefazione che Nolte aveva preparato per l'edizione italiana del suo nuovo volume, il filosofo italiano Augusto Del Noce, col quale lo storico tedesco ebbe un lungo rapporto epistolare, gli scrisse una lunga lettera nella quale si legge: «Si è trattato veramente, negli anni tra il '17 e il '45, di una guerra civile europea, e movimenti come comunismo, nazismo, fascismo, non possono essere considerati isolatamente, come certa mentalità progressista che pur detiene le chiavi del potere culturale, così in Italia come in Germania (e lei ne sa qualcosa!), vuol fare. Sotto ci sono interessi pratici ben chiari: la revisione dell'interpretazione della storia contemporanea avrebbe contraccolpi filosofici molto seri. Investirebbe la stessa filosofia da cui questi progressisti prendono le mosse».

Ernst Nolte è diventato, nell'immagine comune, l'icona del revisionismo storiografico, al pari di altri studiosi come Renzo De Felice in Italia e François Furet in Francia. In proposito egli, in una lunga conversazione con Siegfried Gerlich, ebbe a precisare: «Io non mi sono mai definito un revisionista, ma ho sempre avvertito una certa differenza tra revisioni che sono indispensabili alla scienza storica, e scuole alle quali gli storici si associano, e che hanno un comune obiettivo politico che intendono promuovere attraverso varie revisioni. In questo senso non credo di dover essere annoverato tra i revisionisti». In realtà, Nolte fu uno storico nel senso proprio del termine, solo preoccupato di spiegare il passato al di fuori delle lenti troppo deformanti dell'ideologia e del politicamente corretto. La sua scomparsa lascia un vuoto incolmabile nella storiografia contemporanea.

E, un senso di amarezza e di nostalgia in chi ebbe occasione di conoscerlo, frequentarlo e apprezzarne anche le doti umane.

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