«E adesso? Adesso, tutto qui?».
È il 13 agosto 2016. Ho appena toccato. Non è stato un «tac... tac!». Bensì un «tac!» seguito, cinque secondi dopo, da un altro «tac!». Perché ho dominato. Eppure, qualcosa non va. Qualcosa continua a non andare.
Ho appena vinto l'oro alle Olimpiadi e capisco di aver rincorso un sogno lungo quindici anni per non sentire dentro di me praticamente nulla di ciò che mi ero immaginato.
In fondo lo temevo. I presagi di questi giorni si sono avverati: nessuna vera gioia, nessuna vera felicità. Non provo nulla di avvicinabile alle mille emozioni sognate per una vita fantasticando su come sarebbe stato l'oro olimpico. La pressione che mi ero creato per non mollare mai e allenarmi sempre più, le pressioni degli altri, la solitudine, tutto ciò in cui credo si è rivoltato contro.
E adesso non sento niente.
Percepisco solo che finalmente è finita, che ho portato a termine il lavoro, che sono riuscito ad accontentare gli altri, ma non me stesso.
Giochi di Rio e giochi di parole: «loro» che davano per scontato «l'oro» saranno felici... ora. Non sono neppure stanco, se riesco a giocare con le parole. «Visto, l'avevamo detto» potranno affermare loro. E hanno ragione. Il signor Tal dei Tali ha firmato l'atto dal notaio e la pratica può dirsi conclusa. La medaglia più importante è arrivata, ho soddisfatto le certezze altrui. Quanto alle mie, che importa?
Venti minuti fa me ne era rimasta una soltanto: la voglia di finire tutto al più presto. Ho vinto l'oro, signori. Dovrei essere fuori di me per la gioia, ma al momento mi sento solo sollevato. Perché non correrò il rischio di sentirmi dire, un giorno: «Sei un perdente, hai vinto tutto tranne le Olimpiadi, bravo coglione!».
Che sollievo.
Mi sento come quando ci si sveglia da un incubo e solo a pensarci è assurdo. Perché ti spacchi la schiena, vivi di sacrifici, ti isoli dal mondo per inseguire un obiettivo e poi scopri che raggiungerlo è come svegliarsi da un brutto sogno. Lo temevo. Anche se in qualche modo mi ero illuso fino all'ultimo che potesse essere diverso e che sul più bello sarei scoppiato di felicità. A meno che il sollievo non sia felicità.
Con la mano mi ancoro al bordo vasca e attendo che gli altri arrivino. Li ho battuti tutti, sono lontani secondi. Mi sento come Sun Yang quattro anni fa a Londra, quando lo incrociavo a metà vasca tanto era più avanti di noi. Aveva fatto il record del mondo.
E io? Io che cosa ho fatto?
Le urla e gli applausi dell'arena non mi permettono ancora di capire se sono l'ovazione per un primato o solo per l'oro. Respiro, mi volto e cerco lo schermo gigante con i tempi mentre il pubblico sventola bandiere e sensazioni opposte mi avvolgono.
Dio, fa' che ci sia scritto «record del mondo». Che sul display appaia quella sequenza di numeri, 14'29 e qualcos'altro, non importa cosa. Oppure fa' che sia l'esatto contrario, che abbia vinto con il tempo peggiore della stagione, così che possa accontentarmi della bellezza di quest'oro che ancora non riesco a sentire come vorrei: la delusione per un brutto tempo diventerebbe rabbia e la rabbia una secchiata di acqua gelida capace di svegliarmi dall'anestesia di sensazioni di cui sono preda. Perché io ho bisogno di gioire per questa medaglia. Anche se ancora non ci riesco.
Invece, nessun record e nessun pessimo tempo.
14'3457. Secondo crono dell'anno, quando il primo è mio da mesi. Ancora a tre secondi dal primato mondiale di Sun Yang, come agli Europei.
Niente rabbia, allora.
Niente doccia gelida.
Niente vera gioia.
Niente vera delusione.
Solo la certezza di non poter rivelare quello che ho veramente dentro. Non capirebbero. Nessuno capirebbe.
Neppure io riesco a comprendere come si possa vincere l'oro alle Olimpiadi e non scoppiare di gioia. Eppure è quello che mi sta accadendo. Sembra tutto così incredibile: è come se invece di aver preso qualcosa mi fossi tolto qualcosa. Un peso.
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