IL NORD NON ASPETTA

Dopo la Lombardia, si ribellano alla chiusura anche Piemonte, Veneto e Friuli. Sala si accoda e "Repubblica" ammette: "Fase 2, governo inerte"

IL NORD NON ASPETTA

Politicamente parlando, gli ultimi giorni equivalgono ad un'era geologica. Nella quale si è definitivamente incrinato il rapporto tra Palazzo Chigi e le opposizioni, tanto che le Regioni a guida centrodestra (Friuli, Lombardia, Piemonte, Veneto e Sicilia) si smarcano dal governo e spingono per riaprire il 4 maggio. Ma che ha anche visto Giuseppe Conte compromettere il suo rapporto con il Pd, che sul Mes senza condizionalità avrebbe voluto dal premier una linea più chiara, nonostante le barricate alzate dal M5s. Che si tratti di una rottura insanabile lo diranno i mesi a venire, ma non c'è alcun dubbio sul fatto che da venerdì scorso a largo del Nazareno si ragiona concretamente su un possibile post-Conte. Perché, è il senso delle riflessioni fatte da Dario Franceschini con diversi interlocutori, «la situazione è già adesso insostenibile e non oso pensare cosa potrebbe succedere nei prossimi mesi». Insomma, se il clima è da scontro all'arma bianca ora che siamo con il Paese ancora in lockdown, è evidente che quando l'esecutivo si dovrà confrontare con l'inevitabile crisi economica le cose rischiano di peggiorare ulteriormente.

Lo scontro sul Mes, insomma, è una sorta di paradigma di quello che potrebbe essere l'equilibrio all'interno della maggioranza nei prossimi mesi. E, nonostante Conte stia cercando di trovare un punto di caduta che tenga insieme tutto, il Pd inizia a manifestare dubbi seri. E non è il solo, visto che anche il Quirinale non ha compreso la linea del premier, che venerdì scorso si è presentato in conferenza stampa a dire che l'Italia non firmerà l'accordo sul Meccanismo europeo di stabilità. A quanto si racconta a Palazzo Chigi, Sergio Mattarella lo avrebbe fatto presente direttamente a Conte. Di certo glielo ha fatto notare Franceschini durante la lunga discussione di venerdì, quando le urla si sono sentite fino nei corridoi. E anche sul Colle, racconta chi conosce le cose del Quirinale, i dubbi sulle ultime mosse del premier inizierebbero a farsi strada. Tanto che, nonostante negli ultimi mesi Conte si sia mosso beneficiando dell'ombrello quirinalizio, ora non si escludono più scenari alternativi. Non è un segreto che molti abbiano letto in questo senso la nomina di Vittorio Colao a capo della task force che dovrebbe occuparsi della cosiddetta «fase due». Non si tratta ovviamente di scenari imminenti e diverse sono le ipotesi sul tavolo, soprattutto considerando gli attuali numeri del Parlamento e il fatto che in questo momento il Paese non si può permettere di andare ad elezioni anticipate. Dunque, la prospettiva è fumosa. Anche perché molto dipende da come si chiuderà il Consiglio Ue del 23 aprile. Poi la partita sarà sostanzialmente nelle mani di Mattarella. Il capo dello Stato fino ad oggi è sempre stato molto attento a mantenere un profilo assolutamente istituzionale e di terzietà, limitandosi sempre e solo alla moral suasion. Anche se la storia racconta che molto spesso i presidenti della Repubblica cambiano passo proprio negli ultimi due anni di mandato. Giorgio Napolitano, Carlo Azeglio Ciampi o Francesco Cossiga, insegnano.

Negli affanni di Conte, un ruolo centrale se lo è ritagliato Luigi Di Maio. Che due giorni fa ha aizzato il fuoco di fila del M5s per picchiare contro il Pd e mettere il premier alle strette. Circostanza, questa, che il ministro degli Esteri ieri ha smentito non proprio con il garbo o la buona educazione che dovrebbe aver appreso in questi mesi nelle felpate stanze della Farnesina. «Smentiamo categoricamente il pezzo pubblicato da Il Giornale a firma Adalberto Signore. Un articolo inventato, pilotato e strumentale. Tutte le ricostruzioni sono false, destituite di fondamento e dimostrano una certa approssimazione professionale del giornalista», si legge in una nota firmata da un fantomatico «staff di Di Maio». Firmata, insomma, da una sorta di entità astratta, vaga e indefinita. D'altra parte, Di Maio è abituato a lanciare il sasso e nascondere la mano. Come ha fatto mercoledì, quando ha spinto i suoi ad attaccare Conte per poi citare candidamente Alcide De Gasperi e invitare tutta la maggioranza a «giocare unita». Un Di Maio che alza la posta nel tentativo di riprendere le redini del Movimento al grido «no-Mes». Ma che rischia di finire in un vicolo cieco. Il Mes, in forma light e senza condizionalità, si farà.

E il titolare della Farnesina dovrà o accettarlo oppure far saltare il governo e ritrovarsi senza ministero e con un partito lacerato. I bene informati puntano sulla prima opzione. E sono sicuri che il no-Mes farà la stessa fine del no-Tav.

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