Le nostre figlie perdute le nostre paure ritrovate

Le nostre figlie perdute le nostre paure ritrovate

Sento un pezzo di lamiera che mi preme sulla giugulare. E le gambe che diventano troppo leggere per tenermi in piedi e i pensieri che mi vanno via dalle tempie fredde, anche se cerco di trattenerli. Svaniscono lenti e sudati assieme al numero di telefono di mia madre, che pure vorrei avere la forza di chiamare. Per dirle. Qualcuno la chiami, la mia mamma. Che mi ha salutata con le lacrime agli occhi, che si è morsicata le labbra sulla porta, allungandomi la valigia, un impermeabile e una disperata benedizione. Congedandomi controvoglia, sforzandosi di sorridere perché amare è un'avventura senza mappa né bussola dove solo la prudenza porta fuori strada. E allora sì, vai, figlia mia, perché se ti trattengo sbaglio, se ho paura sbaglio. E invece devo saperti dare radici e ali.

Mi sento la vertigine nello stomaco di chi non sa ma teme e spera e aspetta. Mi sento anche quella che è dall'altra parte del telefono che non squilla. Mi sento anche quella che si è trovata sulla porta a lasciare andare. A dover lasciare andare. Un panino alla bresaola, un biglietto di ritorno per le feste di Pasqua, un oggetto transizionale per prendere congedo fingendo di non prenderlo e poi il regalo più costoso: la fiducia nel destino. Che, più di un voucher, è l'equipaggiamento indispensabile per veder partire un figlio.

Sono talmente vecchia per ogni cosa che ormai so come si fa tutto. So come si fa ad essere figlie, perché a dispetto dell'anagrafe mi sento ancora tale. E mi sento ancora tale malgrado, sempre a dispetto dell'anagrafe, ho anche fatto un figlio. Mi sento le ragazze dell'Erasmus e mi sento le mamme dell'Erasmus. E quindi non mi sento più. Sono morta come loro o sono sopravvissuta a loro. Che è la stessa cosa. Perché se ti muore una figlia hai la tentazione di andarci dietro. E invece no. Perché lei voleva restare viva e felice. E ora tutto questo vuol dire «noi». Ed è un «noi» che spetta solo a te. So come si fa ad essere figlie e so come ci si sente ad essere madri. Sono stretta in quel grumo di legami che cavano il fiato a muoversi in ogni direzione. So come si arriva a prendere certe decisioni, ammesso che «decisione» sia il termine giusto per quello strappo nella psiche che, in ogni caso, si presenta troppo presto. So come ci si sente quando si vuole andare e si scalpita per salutare in fretta, prima che le lacrime, i sensi di colpa e le rassicuranti sottane ti convincano a non prendere il volo. E so come ci si sente quando devi tenere a bada tutto quello da cui hai dovuto divincolarti quando eri tu a voler prendere congedo e non capivi chi non voleva rassegnarsi ad alleggerirti e basta.

Perché in fondo ci vanno tutti a studiare all'estero. In fondo devono tutti andarsene da casa. In fondo devono tutti crescere. Sì, ma crescere, non morire. Non accartocciarsi a vent'anni, col cuore trafitto da pezzi di metallo e il fiato che non passa più dal petto perché un autista si è addormentato alla guida. Tornavano dalla festa di Las Fallas, domenica mattina, le ragazze dell'Erasmus. È la seconda più popolare in Spagna dopo quella della corsa coi tori nelle strade di Pamplona.

In cosa consiste? Nelle congregazioni di Valencia che per mesi costruiscono enormi, meravigliose, curatissime statue di legno. Gareggiando tra loro per chi riesca a modellare la più bella. Peccato abbiano tutte il medesimo destino: bruciare nella notte di Las Fallas...

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