Coronavirus

Ospedali chiusi per Covid: che danno...


La ricerca SICE: in diversi casi pochissimi interventi chirurgici e sale operatorie sbarrate

Ospedali chiusi per Covid: che danno...

Codogno (Lodi), 21 febbraio 2020. Fanno il giro del mondo le immagini del cartello che indica l’ingresso del pronto soccorso con un cartello incollato sopra e la scritta “chiuso”. Il giorno prima lì è stato ricoverato Mattia Maestri, il “paziente 1” del coronavirus in Italia e in Europa. Quel cartello lascerà i cittadini senza parole, smarriti; nemmeno la guerra ha fatto cessare l’attività degli ospedali. Quel cartello diventa il simbolo di un’ospedalizzazione forzata della crisi pandemica, che sarà la necessità, ma anche il limite della via italiana alla guarigione dal COVID. Soprattutto durante la seconda ondata da settembre a dicembre 2020. “Un insegnamento di cui dovremo tener conto in futuro” dice il professor Ferdinando Agresta, medico chirurgo dal 1987, attuale primario di chirurgia generale presso l’ospedale di Vittorio Veneto e dal 2019 presidente della Sice, Società italiana di chirurgia endoscopica, laparoscopica e nuove tecnologie. Con un gruppo di ricercatori della Sice è stata presentata la ricerca “Il cambiamento del comportamento chirurgico durante la pandemia di COVID-19”. Lavoro di gruppo che ha avuto l’onore della pubblicazione ai primi di marzo sulla rivista scientifica “Updates Surgery”, considerata l’ottava più autorevole al mondo.

Professor Agresta, perché questa ricerca è stata considerata così importante?

“Si tratta di una fotografia molto dettagliata dello stato dell’arte della chirurgia italiana nel 2020, l’anno del coronavirus. Hanno risposto all’indagine promossa dalla Sice 226 unità operative di chirurgia sulle 447 attive in Italia. Il 50%, laddove una percentuale ottimale nelle ricerche scientifiche internazionali è del 30%”.

Quale situazione emerge dalla vostra ricerca?

“I chirurghi rimasti a corto di lavoro causa COVID si sono reinventati internisti, cioè medici che si occupano in generale di pazienti la cui cura non richiede un intervento chirurgico”.

Il coronavirus come ha influito sui reparti di chirurgia?

“Da marzo a giugno, durante la cosiddetta prima ondata, è stato chiuso il 12% delle unità operative di chirurgia. Questa percentuale è scesa all’8% nel periodo della seconda ondata, da settembre a dicembre. Ma sono numeri alti, perché anche i reparti di chirurgia che non sono stati chiusi del tutto hanno registrato sensibili riduzioni degli interventi”.

Cosa ha significato questa ridotta attività per i posti letto disponibili?

“Si sono ridotti spesso al lumicino. Il 70% delle unità di chirurgia da noi interpellate ha avuto meno di 20 posti letto disponibili, pochissimi. Per capirci il reparto che dirigo nell’ospedale di Vittorio Veneto che ha 235 posti letto è stato chiuso del tutto durante la prima ondata”.

E gli interventi in sala operatoria sono diminuiti nella stessa misura?

“Il 30% delle unità operative hanno fatto meno di 20 interventi chirurgici programmati da marzo a giugno. Da ottobre a dicembre il 18% delle unità chirurgiche aveva questa diminuzione d’interventi”.

E per gli interventi non programmati?

“In urgenza il 43% di unità operative di chirurgia ha fatto meno di 20 procedure operative da marzo a giugno. Situazione leggermente migliorata da ottobre e dicembre con il 27% dei reparti chirurgici scesi sotto le 20 operazioni”.

Cosa significa avere una chirurgia parzialmente paralizzata?

“Si parla spesso e giustamente dei 377mila italiani che soffrono a causa di tumori maligni. Ma pensiamo anche agli oltre 200mila casi di ernia inguinale o addominale. E a tutte le patologie invalidanti che non consentono a chi ne soffre di lavorare, ad esempio. O ai 9 milioni di italiani che accusano problemi di colecisti”.

Quanto personale è stato interessato dall’indagine della Sice?

“Possiamo dire che sono stati interessati circa 500 medici chirurghi distribuiti su tutto il territorio nazionale. Una media ponderata e realistica diciamo vede impegnati in una singola unità chirurgica 10 medici e 30 addetti al personale sanitario. Il rapporto è 1 a 3”.

Dai numeri forniti si nota che i cittadini hanno avuto meno paura nella seconda ondata rispetto alla prima, è così?

“Certamente sì. Il nemico invisibile, il coronavirus di febbraio-marzo 2020 faceva paura perché del tutto sconosciuto. A ottobre-novembre 2020 i cittadini ne sapevano di più e piano piano sono tornati a utilizzare gli ospedali anche per altro”.

Il coronavirus come ha cambiato la vita ospedaliera?

"Un ospedale è diventato una grande sala operatoria. Per un chirurgo la mascherina, l’igiene delle mani, il distanziamento costituiscono l’abc dei protocolli di sicurezza. Poi c’è stata maggiore attenzione rispetto all’utilizzo di alcune tecniche, come l’uso di anidride carbonica nella chirurgia laparoscopica, cioè meno invasiva per il paziente”.

Cosa ci ha insegnato il coronavirus?

“I chirurghi hanno sentito l’importanza del tema anche in questa ricerca. Solo mettendo insieme i dati si può dare un contributo importante. L’ospedale deve continuare l’attività ordinaria anche durante la pandemia; non è possibile che un cittadino trovi il cartello “chiuso per virus” su una sala operatoria, su un pronto soccorso, su un reparto di chirurgia”.

I ricercatori che hanno partecipato a questa ricerca sono Umberto Bracale, Mauro Podda, Simone Castiglioni, Roberto Peltrini, Alberto Sartori, Alberto Arezzo, Francesco Corcione.

Il dottor Bracale fa capire che questa ricerca per il Sice è solo l’inizio: “Il nostro studio fa emergere chiaramente i danni indiretti prodotti dal coronavirus e conseguentemente ha dato il via ad un successivo studio, ancora in corso, sempre organizzato dalla SICE, per valutare in modo rigorosamente scientifico il ritardo nella diagnosi delle patologie neoplastiche e nel relativo trattamento a seguito della pandemia”.

Commenti