"La pandemia era prevedibile" l'intervista al professor Ernesto Burgio

Il professor Ernesto Burgio esperto di epigenetica e biologia molecolare è molto chiaro su alcuni punti fondamentali dell'epidemia

"La pandemia era prevedibile" l'intervista al professor Ernesto Burgio

A poche ore dall'annuncio del prolungamento delle misure restrittive per il contenimento dell'epidemia di coronavirus Covid-19, abbiamo intervistato il professor Ernesto Burgio, esperto di epigenetica e biologia molecolare nonché presidente del comitato scientifico della Società Italiana di Medicina Ambientale, membro del consiglio scientifico dell'European Cancer and Environment Research Institute di Bruxelles, nonché collaboratore dell'Oms per quanto riguarda il Children's Health and the Environment Training Package for the Health Sector. Il professor Burgio ci racconta quello che potevamo fare di più, come funziona questo virus, e soprattutto cosa ci aspetta in futuro.

Diamo uno sguardo al passato recente. In Cina i primi casi confermati risalgono al 17 novembre, il 27 dicembre Zhang Jixian, un medico della provincia di Hubei, informa le autorità che i casi noti sono 180 ed il primo gennaio arrivano a 381: una crescita esponenziale. A fine gennaio i casi esplodono arrivando a seimila e si contano i primi decessi. Wuhan e la provincia di Hubei sono in lockdown; sempre a gennaio si attiva l’Oms e il 31 il governo italiano dichiara lo “stato di emergenza nazionale”. Poi il 23 febbraio, a fronte dell’esplodere del contagio nei comuni del lodigiano e di Vo Euganeo vengono stabilite le prime “zone rosse”. 23 giorni in cui il virus è rimasto sostanzialmente libero di circolare in Italia. Si poteva fare qualcosa di più per prepararsi all’epidemia in quei 23 giorni di “emergenza nazionale”?

Una delle affermazioni meno veritiere che sono state fatte è che la pandemia non sarebbe stata prevedibile e prevenibile. Questo non è vero perché da almeno 20 anni, dai primi allarmi sull’aviaria e sul primo coronavirus della Sars sapevamo che le probabilità di una pandemia erano alte. Lo sapevamo da centinaia di verifiche epidemiologiche, di studi scientifici e persino di simulazioni fatte in vari contesti e ambiti e proprio negli ultimi mesi l’allarme era stato nuovamente lanciato dalle massime istituzioni internazionali. La verità è che la Cina, la Corea, Hong Kong, Taiwan e tutto il Sud Est asiatico erano preparati ed hanno reagito in modo conseguente. È anche possibile sostenere che i Cinesi avrebbero potuto avvertirci prima, visto che a fine dicembre già sapevano quello che stava succedendo. Ma, sinceramente, vedendo quello che è successo in Occidente non credo che le cose sarebbero cambiate. Appena si è registrata un’impennata dei casi, la Cina ha letteralmente chiuso la provincia di Hubei, 57 milioni di abitanti, cominciato il monitoraggio a tappeto, costruito aree sanitarie e ospedali dedicati soltanto all’emergenza. Inoltre gli scienziati cinesi hanno immediatamente pubblicato la frequenza del virus e quindi avremmo potuto e dovuto renderci subito conto della sua pericolosità. In Italia, soltanto il Veneto ha agito in maniera rapida ed efficiente: riconosciuto il primo cluster lo ha subito isolato, sono stati eseguiti i tamponi non solo ai soggetti sintomatici ma anche ai loro contatti, è stata chiusa l’università di Padova e rapidamente messe in relativa sicurezza le strutture sanitarie. È bastata insomma la presenza di un parassitologo consapevole ed esperto dell’Università di Padova come Andrea Crisanti, per fare la differenza.

La comunicazione mediatica, sia da parte degli enti governativi sia da parte degli esperti, è stata spesso contraddittoria: prima era una “banale influenza”, le mascherine non servivano se non ai malati e dovevamo continuare nella nostra vita normale per non fermare l’economia. Poi con il precipitare della situazione si è cambiato registro, sebbene sempre in modo poco chiaro. Secondo lei cosa è mancato? Si sarebbe potuto agire meglio nel prendere le relative misure cautelative e di cambiamento delle nostre abitudini?

Lo ripeto, la grande differenza è stata tra i paesi asiatici e il resto del mondo. I primi si sono preparati, noi no. È vero che inizialmente si è cercato di rassicurare la popolazione, dando informazioni non del tutto corrette sul virus, affermando in modo plateale che si trattava di un banale virus para-influenzale. Bisogna però sottolineare che se alcuni infettivologi, pneumologi e clinici illustri hanno inizialmente sottovalutato il virus è perché in Occidente una diretta esperienza nel campo delle emergenze pandemiche non c’era da decenni. Se le informazioni non sono state tempestive è essenzialmente per questo.

Veniamo al virus. Si tratta di uno dei tanti coronavirus già noti alla medicina; sono virus ad Rna quindi facilmente soggetti a mutazioni. Secondo lei cosa è più corretto dire: che una mutazione verso una specie più pericolosa per l’uomo sia da escludere o, viceversa, che sia altamente probabile? Nella sua esperienza come funziona un virus di questo tipo?

Anche in questo ambito ci sono state informazioni non sempre corrette. Questi virus si comportano come quasispecies. Attorno alla sequenza master, che è di per sé relativamente instabile e mutevole trattandosi di un virus a Rna, ci sono molte varianti. Le mutazioni principali però riguardano la Spike-protein, che permette l’aggancio ai recettori delle vie aeree superiori. Sono queste che hanno permesso l’adattamento del virus alla nuova specie. Non è possibile al momento prevedere se il virus acquisirà ulteriori modifiche adattative, né se queste si riveleranno più o meno pericolose per il genere umano. È stato perfino scritto da autorevoli microbiologi che al virus conviene trovare un equilibrio con la nuova specie, piuttosto che diventare sempre più virulento. A mio parere questo tipo di interpretazioni un po’ semplicistiche derivano da una visione eccessivamente antropomorfica e non è possibile prevedere in che modo la co-evoluzione tra virus e ospite proceda nel tempo.

Parliamo ora delle origini dell’epidemia, sia dal punto di vista filogenetico sia dal punto di vista della meccanica della sua prima diffusione. Secondo lei questo virus è stato creato in laboratorio o è del tutto naturale? Per quanto riguarda la prima diffusione ritiene credibile la versione cinese, quella del “mercato del pesce”, oppure propende verso altre ipotesi, come ad esempio quella del passaggio animale-uomo a causa delle carenze nei dispositivi di sicurezza all’interno dei laboratori di Wuhan in cui si stavano facendo ricerche sui coronavirus? Ritiene anche possibile, come si legge in uno studio americano, che il passaggio animale-uomo sia avvenuto a causa della mala gestione dei rifiuti organici provenienti dal laboratorio in questione?

Anche in questo caso, bisogna evitare le interpretazioni semplicistiche e per così dire complottiste, basate su congetture quantomeno non dimostrabili. Chi studia questo tipo di problematiche sa che è estremamente difficile introdurre in un virus mutazioni stabili in laboratorio. Nei giorni scorsi sono diventati verrebbe da dire “virali” alcuni filmati e in particolare uno comparso su Rai 3 Leonardo nel 2015 nel quale si descriveva un esperimento condotto in Cina su un coronavirus geneticamente modificatio. Bisogna notare che si trattava di un coronavirus totalmente diverso dall’attuale e che questi esperimenti da anni vengono condotti con motivazioni comprensibili: per trovare vaccini e farmaci efficaci. Che poi si voglia pensare ad incidenti o al rilascio deliberato di questo tipo di agenti patogeni non stupisce, visto il clima psicologico nel quale viviamo da decenni.

Lei è stato a contatto con ambienti della Difesa, quindi parliamo di Biological Warfare. Nella sua esperienza ritiene che un virus dalle caratteristiche come quelle di Sars-CoV-2 possa essere annoverato come agente patogeno per una guerra batteriologica?

Tengo a precisare che, semplicemente, un colonnello dell’Esercito Italiano nel periodo caldo dell’Aviaria e della prima Sars mi aveva coinvolto all’interno di un gruppo di esperti. E già allora insegnavo, anche nell’ambito di master universitari, che a differenza di altre armi non convenzionali (chimiche e nucleari) l’utilizzo di un’arma biologica sarebbe stata una follia. Per il semplice motivo che mentre le prime hanno un raggio d’azione almeno in certa misura prevedibile, le armi biologiche assolutamente no: il loro percorso spaziotemporale non è minimamente controllabile nemmeno da parte di chi le abbia progettate ed utilizzate. Insomma, tutto questo, mi sembra piuttosto fantascienza o fantapolitica e comunque dobbiamo stare ai fatti: un virus pandemico circola e dobbiamo trovare, tutti insieme, il modo di fermarlo.

Un’altra domanda tecnica: alcuni virologi credono che la vaccinazione contro la Tbc possa fornire una qualche sorta di “immunità” al contagio. Cosa ne pensa?

Anche su questo è difficile rispondere. Stiamo cercando, con alcuni virologi francesi di capire il modo in cui questo virus riesce a condizionare il sistema immunocompetente dell’uomo. Sappiamo che il virus nella prima fase di diffusione nell’organismo umano blocca l’immunità naturale. Per capire le complesse interazioni con l’immunità adattativa dobbiamo essenzialmente rifarci agli studi su altri virus e in particolare sul coronavirus della Sars del 2002. Ma è ancora difficile prevedere come si venga a stabilire un certo grado di immunità naturale. L’interferenza positiva di altri vaccini e in particolare del vaccino antitubercolare parte dal presupposto che un aumento aspecifico dell’immunità cellulare possa giovare. Al momento non mi pare che ci siano prove sufficienti.

L’ultima questione riguarda la durata dei provvedimenti di “serrata”, ma vorrei partire da un chiarimento che riguarda direttamente l’Oms ed i protocolli di “fine pandemia”. Vuole spiegarci esattamente in cosa consistono? Secondo lei quando potremo far registrare, in Italia, “zero nuovi contagi”? Ritiene che dovremo convivere a lungo con il virus e che quindi siano possibili “seconde ondate” e nuovi provvedimenti di restrizione della nostra vita sociale?

Queste sono indubbiamente le domande chiave che dovremo cominciare a porci nei prossimi giorni. Almeno, a partire da dati certi di riduzione dei casi e soprattutto dei decessi nelle aree più colpite: Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte. Perché è evidente che per arrivare alla situazione ideale di contagi zero passerà ancora del tempo. Certamente la conoscenza dei dati sulla contagiosità del virus è fondamentale: sappiamo che nei casi gravi il soggetto colpito rimane contagioso per almeno 40 giorni dall’inizio della sintomatologia. Nei casi moderati e negli asintomatici la durata della permanenza del virus nelle vie aeree e quindi della contagiosità sembra essere notevolmente ridotta. Ma è evidente che non possiamo rischiare. Quindi a partire dalla fase di plateau e poi di riduzione della diffusione epidemica bisogna cominciare a programmare una fase di progressiva riduzione del lockdown a partire da questi dati. Penso che sia i protocolli dell’Oms, sia quelli nazionali non potranno che modificarsi, via via, sulla base delle evidenze. Ma soprattutto, penso che in questi casi si debba ragionare, come la scienza delle emergenze pandemiche chiede, secondo il peggiore degli scenari possibili, per evitarlo a tutti costi. E per quanto concerne le pandemie moderne, il peggiore degli scenari possibili rimane la grande Spagnola del 1918, che come molti hanno ribadito in questo ultimo mese, ebbe due ondate e la seconda, autunnale fu molto peggiore della prima, al punto da determinare la morte di decine di milioni di persone.

Questo non significa che questa evenienza sia probabile. Dobbiamo sottolineare che si tratta però di una possibilità non remota, vista l’instabilità dell’immunità collettiva e la difficoltà oggettiva di mettere a disposizione di tutti un vaccino sicuro ed efficace.

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