L'occasione per questa riflessione nasce dal titolo di un quotidiano italiano dedicato alla spaventosa tragedia dell'Airbus tedesco. «Il mistero del pilota assassino», dice questo titolo. La memoria corre subito a film demenziali, come Il mistero del cadavere scomparso con Steve Martin, o a titoli di gialletti da quattro soldi.
La voglia di risolvere tutto in un gialletto non va sottovalutata, è una tentazione di tutti. E poi l'Italia è un paese di giallisti. Personalmente, invece, devo tornare all'11 settembre 2001 per trovare un orrore simile a questo, anche se per molti versi trovo questo ancora più raccapricciante.
Sarò sincero: se qualcuno mi avesse detto «no, non è stato il copilota, è stata l'Isis», be' vi giuro che avrei tirato un sospiro di sollievo. Ci troveremmo in una situazione di pericolo ma tutto sommato comprensibile nell'odierno quadro geopolitico - chiamatelo «scontro di civiltà» o «islam contro occidente», o «conseguenze della politica americana in Medio oriente».
Ma questo evento oltrepassa ogni catalogazione sia geopolitica che psichiatrica e viene a minacciare, come una scure alla radice dell'albero, i fondamenti stessi della convivenza umana, l'abc di qualunque società e di qualunque civiltà.
Per intenderci bene, mi faccio aiutare da due grandi intellettuali italiani.
Il primo, don Giussani, nello spiegare a giovani del primo anno di università il concetto di «certezza morale» faceva sempre l'esempio di un uomo che, dovendo prendere il tram, pretendesse, prima di salire, di leggere una perizia psichiatrica attestante la sanità mentale del tramviere. Noi non lo facciamo, concludeva Giussani, perché abbiamo la certezza morale che quel tramviere seguirà il tracciato della linea.
È così infatti che funziona il mondo: senza una certezza così noi non potremmo nemmeno esistere.
Il secondo intellettuale, Claudio Magris, sostiene sempre che in qualunque discussione, anche accesa, la condizione è che i contendenti concordino almeno sul 60%, e che la discussione si sviluppi sul restante 40. Se mio figlio venisse a chiedermi «scusa papà, ma perché non si deve uccidere?» verrebbero meno i presupposti per qualunque discussione. Se devo spiegarti perché ti do un piatto di spaghetti anziché sgozzarti, che spiegazioni ti posso dare? È semplicemente finito il mondo.
Andreas Lubitz «era depresso», dicono le cronache. E questo cosa spiega, cosa ci dice mai? Il lettore del giornale dovrebbe tranquillizzarsi? Dovrebbe concludere augurandosi, con un mezzo sorriso di amarezza, mentre si dirige verso la minestra, che non tocchi anche a lui, durante uno dei suoi viaggi in aereo, un copilota psicopatico?
In altre parole: è di questo che si sta parlando?
No. Si sta parlando del fondamento del contratto sociale, delle ragioni per cui esiste qualcosa che si chiama Milano, o Parigi, o Bergamo, o Italia, o Germania, o Europa; delle ragioni per cui esistono famiglie a vario titolo, per cui ci si fidanza, o si dà vita a un'impresa; delle ragioni - dirò di più - per cui si interrompono i legami, marito e moglie si separano, le aziende si chiudono, i soci litigano e così via. Perché anche per rescindere un legame è comunque necessario che, prima, il legame ci sia, e venga riconosciuto.
Chiamate pure psicopatico il defunto Andreas Lubitz. Quello che sappiamo è che, anziché gettarsi dal quinto piano, non credendo più nella vita ha ammazzato altre 149 persone.
Un uomo europeo tranquillo, un giovane tedesco di buona famiglia, educato in buone scuole, con un buon lavoro (quando spesso a 27 anni se ne sta ancora cercando uno), accompagnato da attestati d'eccellenza, non riconosce più alcun nesso tra sé e altre 149 persone che si affidano a lui, dopo aver pagato il biglietto (un contratto, dunque), per raggiungere Düsseldorf da Barcellona.
Una volta esaurita la nostra riserva di fiducia, ossia la consapevolezza che l'altro è un altro e io lo riconosco come parte del mio mondo quotidiano, ebbene: la civiltà è finita, e tutto il suo impianto fa cilecca.
Per questo, scartata la pista terroristica, preferisco immaginare che Lubitz, che in passato aveva sofferto di depressione, una volta lasciato solo in cabina abbia avuto il suo primo, spaventoso attacco di panico, quando il terrore impedisce di ragionare correttamente e una lucidità artificiale (capace comunque di azionare comandi) si impossessa della mente, e, nell'estrema sofferenza, la conduce a ordire la propria morte, lo schianto, il nulla che il dolore può invocare - lo sappiamo - quale unica, sia pure improbabile salvezza.
O, ancora, preferisco immaginare che abbia imitato il protagonista di qualche gialletto intitolato «Il
mistero del pilota assassino», ma solo per scoprire quanto stupidi siano quei film, e quanto labile sia il nesso tra le loro storie meccaniche e senz'anima e la drammatica ma bellissima realtà della nostra vita quotidiana.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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