Guerra in Ucraina

Perché le foto dell'orrore vanno mostrate

No. Non possiamo girarci dall'altra parte. Spostare lo sguardo come se "quei corpi a terra senza più calore" fossero un incidente visivo

Perché le foto dell'orrore vanno mostrate

No. Non possiamo girarci dall'altra parte. Spostare lo sguardo come se «quei corpi a terra senza più calore» fossero un incidente visivo. Non nascondiamoci - per paura di spaventarci -, dietro le carte deontologiche, gli avvisi per chi è sensibile e i disclaimer di Facebook e Instagram che oscurano le foto delle vittime di un massacro perché potrebbero urtare la nostra sensibilità. Ecco, in questo momento la nostra sensibilità deve essere urtata, strattonata, schiaffeggiata, tirata fuori a forza dalla comfort zone degli algoritmi che tutto ottundono. Dobbiamo spaventarci perché ogni tanto serve anche avere paura, per capire quello che sta accadendo intorno a noi.

La guerra è una realtà che non solo non si può, ma non si deve edulcorare, camuffare, imbellettare dietro una spazzolata di buonismo.

Le immagini e i filmati che arrivano dall'Ucraina sono devastanti e osceni. Sono un pugno in faccia e un calcio nello stomaco. Sono i peggiori incubi che ritornano a pochi passi da casa nostra. Quelli che abbiamo sempre cercato di esorcizzare come qualcosa che, dopo il grande orrore dei conflitti mondiali, non potesse mai più presentarsi in Occidente.

Palazzi distrutti, abitazioni in fiamme, urla strazianti e disumane, corpi escoriati e mutilati, cadaveri ancora in fiamme. Vite stroncate da una morte bastarda mentre cercavano di mettersi al riparo. Questo è quello che arriva dall'Ucraina.

Una mostruosità che dobbiamo avere la forza di vedere. Il giornalismo che chiude gli occhi dei suoi lettori di fronte alla barbarie dei conflitti, non fa un buon servizio all'informazione. È seguendo questa linea di pensiero che il New York Times - nonostante le critiche - ha deciso di pubblicare la foto di una famiglia sterminata mentre cercava di scappare da Irpin per sfuggire alle forze russe. Se, nell'ultimo mezzo secolo, si è presa coscienza della disumanità della guerra è anche grazie alle immagini che ci hanno portato in casa gli effetti di quelle bombe così lontane dalle nostre patinate vite quotidiane.

Le istantanee dei campi di concentramento, dei corpi deformati dalle esplosioni nucleari di Hiroshima e Nagasaki, l'immagine simbolo della guerra in Vietnam con la bambina nuda che fugge da un bombardamento al napalm e, ancora più recenti, i filmati dell'11 settembre con gli uomini che per scappare alle fiamme si lanciano giù dal World Trade Center, le decapitazioni islamiche, il corpo di Aylan senza vita sulla spiaggia turca. È una lista degli orrori, ma anche un monito che non dobbiamo dimenticare.

Sarebbe stato meglio non vedere tutte quelle immagini? Avremmo fatto un servizio migliore alla nostra società e alla storia? No. Purtroppo la vita reale non può essere sottoposta a un parental advisory, non può essere bollinata come i film in tv, non può essere preceduta - come una serie televisiva - dall'avviso «ci saranno scene di morte e distruzione». Quelle scene, purtroppo, ci sono. La morte e la distruzione esistono. Non spariscono se smettiamo di vederle. Spariscono, semmai, se iniziamo a combatterle. Tacerle, normalizzarle, pixellarle, photoshopparle per riportarle a una decente normalità, è un lavoro da struzzo, non da giornalista. Perché la storia è il lungo intreccio di piccoli frammenti di cronaca quotidiana, tasselli che tutti insieme costituiscono l'affresco delle nostre vite.

Ed è ancora più importante farlo oggi, nell'era delle fake news e della manipolazione di massa dell'opinione pubblica.

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