Coronavirus

Più dei contagi conta la paura del virus. Quando sparisce (davvero) una pandemia

Quando finirà la pandemia di Covid-19? E come? Difficile dirlo. Perché le epidemie hanno in realtà due tipi di finale, come ci insegna la storia

Più dei contagi conta la paura del virus. Quando sparisce (davvero) una pandemia

Quando finirà la pandemia di Covid-19? E come? Difficile dirlo. Perché le epidemie hanno in realtà due tipi di finale, come ci insegna la storia: quello prettamente medico, che si verifica quando precipitano l'incidenza e i tassi di mortalità, e quello sociale, quando la diffusione e la percezione della paura per la malattia si attenuano. Giusto per fare un esempio, vi ricordate il finale dei Promessi sposi quando i grandi temporali di fine agosto 1630 portano via la peste? Manzoni non si è sognato quell'esito. Le cronache dell'epoca ci raccontano la sensazione che ebbero tutti i milanesi che le cose stessero improvvisamente cambiando. Però i «libri dei morti» della città ci raccontano una cosa diversa, l'epidemia proseguì per mesi, anche se forse meno virulenta che durante l'estate.

Quando le persone chiedono «quando finirà?» si riferiscono non tanto al finale medico, l'ultimo caso (ammesso che vada così, ci sono malattie che diventano endemiche) interessa meno rispetto a quando cesserà la sensazione di impotenza, paura e di minaccia incipiente. Abbiamo chiacchierato del tema con due importanti storici.

Per quanto riguarda la percezione della fine delle epidemie il medievista Franco Cardini, di cui è appena tornato in libreria Le cento novelle contro la morte. Giovanni Boccaccio e la rifondazione cavalleresca del mondo (Salerno), la inquadra in una prospettiva di lungo periodo. «La peste si è manifestata a ripetizione in Occidente dal 1347 al 1720, con l'ultimo grande focolaio a Marsiglia. Ovviamente al suo primo comparire generò un grande stupore, fu un trauma che ruppe ogni forma di normalità. Poi divenne un fenomeno riassorbito, si creò una capacità culturale di gestirlo... Non significa fosse meno terribile, ma divenne un fenomeno ciclico e per questo meno choccante. Una sorta di circuito imperfetto... che per fortuna, tendenzialmente, grazie al progresso poi si è smorzato e ha perso di forza. Almeno così è successo per la peste, che è la pandemia più studiata».

Esistono poi, secondo Cardini, degli specifici percorsi mentali che caratterizzano il decorso delle epidemie: «Che si tratti della peste antonina o delle epidemie di vaiolo dell'età moderna, al di là del fondamento medico della questione, le malattie sono diverse, c'è una precisa fenomenologia sociale e politica. All'inizio c'è sempre la negazione del problema, a volte anche la rabbia verso chi invece cerca di dare l'allarme, poi il panico e la ricerca di un colpevole. Alla fine un improvviso senso di sollievo quando l'epidemia si percepisce come passata. Il che non coincide con la fine, in senso strettamente sanitario, del morbo».

Su quanto sia difficile definire il corso di un'epidemia e la sua fine spiega al Giornale alcune cose Giorgio Cosmacini, il più importante storico della medicina in Italia. «È un tema complesso su cui ci viene incontro, per capirne i termini, la Spagnola che è stata l'ultima vera pandemia che ha colpito il genere umano. E che abbiamo affrontato, come questa, senza un vaccino e senza medicinali particolarmente efficaci. I contemporanei la chiamavano epidemia sfinge proprio per la loro poca capacità di comprenderla. E dopo un anno e mezzo se n'è andata senza che ci fosse una precisa analisi scientifica dei suoi meccanismi. Si è come indebolita, come molti clinici, valutando dagli ospedali, dicono oggi del Covid-19. I virologi dicono, al contrario, che il virus è come prima. E anche gli epidemiologi ci dicono di essere cauti. Io sono stato anche un clinico ma non lo sono più. Mi limito a una valutazione da storico, può esserci un percorso come quello della Spagnola. Di sicuro la difficoltà interpretativa è simile».

E la Spagnola pone un altro dilemma che abbiamo passato ai due professori: dopo la scomparsa del virus e quasi 50 milioni di morti (stimati) la vicenda è finita in un cantuccio della manualistica storica. Com'è possibile?

Dice Cosmacini: «Noi, come singoli, cerchiamo di rimuovere gli eventi spiacevoli. Succede anche nella psicologia collettiva. Quella grande sensazione di sollievo che arriva alla fine di un'epidemia porta a proiettarsi sulla ricostruzione, non si vuole concentrarsi sul prima. Oggi si parla di psicosi da virus per quello che sta capitando a molti di noi ma non è una novità, sa come la chiamavano al tempo della peste boccaccesca? Il grande sbigottimento delle genti. Ecco, dopo lo sbigottimento c'è l'oblio». E Cardini: «I morti non sono uguali, i morti delle guerre hanno una rilevanza politica, si può dire che sono morti per la patria e per la libertà. Una pandemia non dà questa opportunità e, quindi, si preferisce scordarla anche dal punto di vista storiografico. Diciamo sempre che i morti sono tutti uguali. Ma non è vero, ci sono morti di serie A e di serie B, persino di serie Z. Nel determinare questa classifica molto dipende dalla qualità che si può attribuire all'evento molto più che dal reale numero dei deceduti».

E quindi spesso le pandemie si dimenticano ma non è detto sia una cosa solo negativa. Spiega Cardini: «Storicamente parlando, per quanto possano essere tremende, le gravi epidemie portano quasi sempre a un'accelerazione del progresso nel periodo successivo. A volte è necessaria una fase di assestamento, più o meno lunga, per ottenere una ripresa materiale, ma poi arriva. Questo è vero soprattutto in caso di società agricole, in cui il morbo di turno si porti via le braccia necessarie alla produzione. In una società come la nostra, e con un numero di vittime limitato, questo fattore però è meno importante. La ripresa potrebbe essere più rapida. A livello medico e scientifico avremo un progresso di sicuro. Bisogna però essere chiari: un progresso tecnico non significa automaticamente una più corretta distribuzione della ricchezza o un miglioramento politico e sociale. Le pandemie ci rendono migliori eticamente o politicamente parlando? Mi piacerebbe, ma come storico non posso dire che sia automaticamente vero.

Al massimo bisogna sperare, come Bernard de Mandeville, che i vizi privati divengano pubbliche virtù».

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