La posta in gioco

A volte si ha la sensazione che il centro-destra non abbia davvero consapevolezza di quale sia la posta in gioco dei prossimi mesi

La posta in gioco

A volte si ha la sensazione che il centro-destra non abbia davvero consapevolezza di quale sia la posta in gioco dei prossimi mesi. All'indomani delle ultime amministrative, andate male, i leader della coalizione fecero una sorta di patto: la partita del Quirinale l'avrebbero giocata uniti, compatti. All'unisono. La promessa è rimasta, ma non si sa se è stata scritta sull'acqua, visto che non tutti i comportamenti sono stati per il momento coerenti. Eppure è evidente che se il centro-destra, che per la prima volta ha la possibilità di dire la sua, giocherà e perderà male questa partita verranno meno i motivi dell'alleanza. La coalizione dimostrerà di essere solo «un sepolcro imbiancato».

Anche perché si tratta di un appuntamento decisivo che vale molto di più delle comunali di Palermo, o, ancora, della possibilità di andare al voto anticipato. Chi pensa il contrario più che occuparsi di politica dovrebbe iscriversi alla bocciofila. Basterebbe dare un'occhiata ad un breve compendio sulla storia del bipolarismo italiano: si scoprirebbe che gli esecutivi del centro-destra non sono mai riusciti a condurre in porto delle riforme incisive, o meglio quelle che avrebbero desiderato, perché hanno sempre avuto a che fare con un capo dello Stato avverso che ne ha depotenziato i provvedimenti, o che, addirittura, in un modo o nell'altro, con le lusinghe o con le cattive, ha scomposto l'alleanza e mandato a casa il governo.

È dal Quirinale, infatti, che si conducono le danze nel Palazzo. Oscar Luigi Scalfaro, ad esempio, ci impiegò meno di sei mesi a dividere Umberto Bossi da Berlusconi e - approfittando di un avviso di garanzia al Cavaliere, che tra l'altro non ebbe seguito - riuscì a silurare il suo primo governo. Giorgio Napolitano, invece, ci mise due anni a staccare dall'alleanza Gianfranco Fini, promettendogli la chimera di Palazzo Chigi. E un altro anno a sostituire Berlusconi con Monti. E che questo sia lo stato delle cose Matteo Salvini dovrebbe saperlo bene, visto che ha patito non poco in questa legislatura la diffidenza nei suoi confronti di Mattarella.

La verità è che, trovando sempre un capo dello Stato «avverso», il centro-destra ha governato, ma non ha mai potuto cambiare davvero il Paese. Berlusconi vinceva le elezioni ma poi doveva vedersela con questa sorta di «contropotere» istituzionale. Dall'esperienza di questi trent'anni scaturisce, quindi, una lezione semplice semplice: se dopo aver conquistato Palazzo Chigi vuoi introdurre riforme profonde, devi avere un presidente amico, al di sopra delle parti davvero o, comunque, che si esima dall'interpretare una politica «ostile», altrimenti la sinistra, che è molto più brava nel gioco di Palazzo, troverà sempre il modo con la sponda del Quirinale di bloccarti o, per usare un'espressione coniata lassù sul Colle, di «ribaltarti». Una lezione che Meloni e Salvini potrebbero imparare a loro spese se non capiranno quale sia la vera posta in gioco a gennaio. Del resto l'ultimo presidente del Consiglio che ha vinto le elezioni è stato proprio Berlusconi. Dal 2008 in poi in questo strano Paese i governi, è cosa nota, si fanno e si disfano dal Quirinale.

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