Cronache

Renzi si arrrende ai magistrati

Le inchieste lo fanno crollare nei sondaggi. E il premier si rimangia la riforma delle intercettazioni

Renzi si arrrende ai magistrati

Nella democrazia all'italiana il voto è sempre il contorno. Renzi è andato al potere senza passare per le elezioni, chi adesso sta lavorando per la spallata (compagni di partito e avversari extraparlamentari) sfrutta le carte giudiziarie e sogna un governo del presidente. È una lotta per il potere a colpi di intercettazioni. Non è una novità. È la storia d'Italia degli ultimi decenni. È una finta democrazia corrosa dai veleni.

Matteo adesso se ne sta rendendo conto. È parecchio preoccupato. Ha paura. Paga i suoi errori e il bluff sui conti e sulle tasse. Paga le gambe corte delle sue misure elettorali, come i famosi 80 euro. Paga il suo più grande insuccesso: non aver sconfitto la recessione. Ma soprattutto sta crollando l'immagine del renzismo, percepito come un comitato d'affari a gestione familiare. Il caso Basilicata è una manna per i suoi nemici, perché ha messo in piazza i panni sporchi del suo governo, le consorterie, i dispetti, le invidie, gli interessi contrapposti che dividono i ministri del renzismo. Il risultato è un calo del consenso, fotografato dai sondaggi di Pagnoncelli: l'80% degli italiani considera ora poco credibile il governo. Non va meglio al partito. Secondo Demos i grillini, in caso di ballottaggio, manderebbero al tappeto il Pd. È l'effetto delle inchieste.

Renzi ondeggia, prima si lancia a testa bassa contro i magistrati, polemizza con il reduce di Mani Pulite e neo capo del «sindacato» dei magistrati Davigo, poi ci ripensa e prova ad evitare lo scontro con le toghe con una veloce retromarcia: «Il governo non ha intenzione di riformare le intercettazioni». Infine sigilla tutto con una furbata anti-berlusconiana: noi non useremo il legittimo impedimento. È una resa al potere dei magistrati «fondamentalisti». Si consegna a loro per restare in sella. È il segno che la paura è davvero tanta. Il potere giudiziario, che scandisce i tempi della politica, è più forte di tutto, perfino dei giovani rottamatori. Davigo è un dinosauro più indigesto di D'Alema.

Eppure il problema politico, etico e democratico delle intercettazioni come strumento di delegittimazione resta. Renzi può non avere il coraggio di sollevarlo, può tentennare, ma chiunque si ritrovi a governare questo Paese dovrà farci i conti, a sinistra, a destra o al di là di qualsiasi schieramento, se lo ritroverà davanti come una pistola carica. Ci sarà sempre qualche procura che gioca non per la giustizia ma per gli interessi di una parte politica. È quello che ieri il quotidiano Repubblica definiva il caso intercettazioni. Se ci fosse una riforma vera, dalle carte date in pasto ai giornali con sapienza politica scomparirebbe la vita privata, il gossip in stile «sguattera del Guatemala», e resterebbe la sostanza. Il problema è che i pm politicizzati non si accontentano della sostanza, il sale è lo sputtanamento. Il paradosso è che a sottolineare l'uso illegittimo delle intercettazioni sia un giornale-partito che per vent'anni ne ha fatto una bandiera anti-berlusconiana. Quello che in prima pagina, quando si parlava di ripensare la legge sugli spifferi delle procure, appiccicava un post-it giallo con scritto «bavaglio». Ma nella democrazia all'italiana la coerenza è marginale.

Come il voto.

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