Rinunce e ipocrisie

Dopo la rinuncia "urbi et orbi" di Sergio Mattarella all'ipotesi di una sua ricandidatura al Quirinale, il silenzio di Mario Draghi sul suo futuro, sul suo presunto desiderio di salire al Colle, si è fatto più assordante.

Rinunce e ipocrisie

Dopo la rinuncia «urbi et orbi» di Sergio Mattarella all'ipotesi di una sua ricandidatura al Quirinale, il silenzio di Mario Draghi sul suo futuro, sul suo presunto desiderio di salire al Colle, si è fatto più assordante. E, non ce ne voglia il premier, quest'indeterminatezza è un elemento di destabilizzazione in un momento così delicato per il Paese. Anche perché lo scenario politico è reso ancor più confuso dalla condizione inedita del Pd, che dopo aver dato per una serie di circostanze fortunate le carte nell'elezione del capo dello Stato per trent'anni, oggi si ritrova orfano dell'unico nome forte che aveva a disposizione per il Quirinale, cioè proprio quello dell'attuale presidente.

Così, almeno un pezzo del partito di Enrico Letta si sta riconvertendo precipitosamente sull'ipotesi Draghi compiendo però un doppio salto mortale dal punto di vista razionale, perché teorizzare che se il premier non prendesse il ruolo di Mattarella il governo andrebbe a scatafascio e con esso la legislatura, è una totale invenzione, un esercizio di ipocrisia bello e buono, dettato dall'ansia e dalla paura di ritrovarsi tra qualche mese dopo tanto tempo senza un punto di riferimento benevolo sul Colle. Semmai è vero l'esatto contrario: se Draghi salisse al Quirinale la strada per le urne sarebbe aperta, visto che senza la sua autorevolezza e il suo prestigio è inimmaginabile pensare che una maggioranza divisa e composita come l'attuale possa andare avanti.

Inoltre sarebbe difficile spiegare la logica che si cela dietro la scelta di un premier di mollare Palazzo Chigi mentre i contagi risalgono, il governo si appresta a prolungare lo stato d'emergenza, l'inflazione torna a galoppare, i progetti del Pnrr stentano a decollare e in assenza di un erede che metta il Paese al riparo dal rischio di elezioni anticipate. Poi certo ogni ambizione è legittima, si possono accampare tutte le motivazioni del mondo: anche perché se Otto von Bismarck teorizzava che la politica è l'arte del possibile, i pittoreschi governi Conte ci hanno insegnato che da noi è diventata la scienza dell'impossibile. Ciò che non è lecito, però, è tenere un Paese appeso ai silenzi in un momento così complicato. Creando le premesse per cui ogni mossa, ogni compromesso al ribasso, ogni rinvio del governo venga letto come una tattica di Draghi per salire al Colle.

Quest'indeterminatezza non dà sicurezza agli imprenditori che investendo (e rischiando) devono far ripartire il Paese, né aiuta a convincere quella sacca di popolazione che ancora non accetta il vaccino. Ma, soprattutto, è un atteggiamento ingiusto verso quei tanti italiani, la stragrande maggioranza, che si sono impegnati e si sono messi in gioco per ripartire.

Ci vorrebbe, insomma, più chiarezza da parte di tutti e una buona dose di buonsenso. Far filtrare dall'entourage del Colle nel «day after» della rinuncia, sai per quale interesse, che Mattarella, ad esempio, sarebbe disponibile a restare se i partiti assumessero l'impegno di una riforma costituzionale che impedisse la rieleggibilità del capo dello Stato, cozza proprio con il buonsenso.

Bisognerebbe trovare le parole per spiegare alla gente che il presidente sarebbe disposto ad accettare il secondo mandato in nome della non rieleggibilità: un compito arduo, paragonabile alla quadratura del cerchio. Come pure un premier che resta in silenzio quando tutti lo chiamano in ballo non contribuisce certamente, ci sia concesso, alla chiarezza.

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