Economia

Se il Pil non migliora la flessibilità ce la scordiamo

La pagella che la Commissione europea dà all'Italia è fatta di stime al ribasso per la crescita del Pil e al rialzo per il deficit e il debito pubblico

Se il Pil non migliora la flessibilità ce la scordiamo

La pagella che la Commissione europea dà all'Italia è fatta di stime al ribasso per la crescita del Pil e al rialzo per il deficit e il debito pubblico. Il Pil del 2015 è andato peggio del previsto. La crescita non è 0,9%, ma 0,8. Al netto della decrescita dello 0,4 del 2014, l'Italia, che secondo l'enfatico premier Renzi, grazie alle sue riforme è ormai «ripartita», ha guadagnato nel biennio del suo governo meno di mezzo punto di prodotto nazionale. Anche l'ottimismo per il 2016-2017 è ingiustificato. La Commissione Europea ha diminuito di 0,1 l'aumento del Pil previsto per quel biennio: quest'anno non l'1,5 ma l'1,4% e nel 2017 invece dell'1,4 soltanto l'1,3. In genere, quando c'è una buona ripresa dopo una recessione lunga e penosa come la nostra, il Pil aumenta da un anno all'altro, guadagnando velocità, man mano che il convoglio riparte. Ma già la precedente previsione dava un rallentamento nel 2017. Ora, con la limatura dello 0,1, il rallentamento comporta una velocità ancora minore.Si può obbiettare che una correzione dello 0,1 sia poca cosa. Ma l'argomento vale quando le cifre di cui si discute sono considerevoli, non quando i numeri sono già piccoli e insoddisfacenti. Se invece di tre panini ne ho uno solo e per di più piccolo, ogni boccone è prezioso. L'Italia ha bisogno di crescita per fronteggiare necessità urgenti. Un aumento del Pil sostenuto dà luogo a una consistente riduzione della disoccupazione. Se la crescita è debole, la disoccupazione fa fatica a scendere, soprattutto quando il mercato del lavoro è poco elastico come quello italiano. Il rapporto debito-Pil ha bisogno di una crescita sostenuta del Pil per poter migliorare. Questo rapporto in Italia, nel 2015, è del 132,4%. Non è mai stato così alto. Se a questo livello ci fosse arrivato Berlusconi, apriti cielo. Invece lo hanno portato così in alto Monti, Letta e Renzi in un quadriennio, aumentandolo dal 118% lasciato dal deprecato Berlusconi, al 132,8 con governi a guida Pd, il partito «del rinnovamento» che ora aspira a diventare il «partito della nazione». Invece pare essere il partito dell'inazione, perché le sue riforme o sono dannose (vedi la tassazione immobiliare da Ici a Imu e Tasi e la nuova tassa sui rifiuti che hanno creato una crisi edilizia senza precedenti, la riforma delle leggi sulle opere pubbliche che le ha bloccate e la legge «salva banche» che ha suscitato le ire dei risparmiatori e turbato il mercato finanziario) o sono solo verbali (vedi quella della burocrazia) o sono inadeguate e costose (vedi Jobs Act).Bruxelles rivede al rialzo il deficit-Pil del 2016, che già violava le regole europee e quelle italiane sul bilancio. Alla Ue, irritata da questi dati, Renzi risponde che l'Italia non prende lezioni. Purtroppo però queste stime non piaceranno alla Borsa, dove i titoli bancari soffrono di una situazione finanziaria già resa delicata dal fatto che i fondi sovrani dei Paesi petroliferi, invece di comprare, vendono. Dato il litigio di Renzi con la Commissione europea sulla flessibilità per il deficit di bilancio, è difficile che essa sia generosa per quanto riguarda il problema dei crediti in sofferenza delle nostre banche, in cui ci serve la vera flessibilità.

Conclusione: la pagella del governo, che «non prende lezioni da nessuno», è negativa e il conto lo paghiamo noi. Francesco Forte

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