Se la proprietà privata è ancora nel mirino

Se la proprietà privata "è un furto", sequestrare per mancanze dello Stato è logico

Se la proprietà privata è ancora nel mirino

L'incredibile vicenda dell'albergo quattro stelle requisito dallo Stato per ospitare i migranti, e non si tratta di un caso isolato, non deve sorprendere. L'hotel Cristallo di Castel d'Azzano è stato destinato da un provvedimento della prefettura di Verona ad accogliere un centinaio di profughi, nonostante le proteste dei proprietari e il fatto che tutte le camere fossero già state prenotate in vista della manifestazione internazionale Fieracavalli. In un Paese in cui è ancora molto diffusa la convinzione che la proprietà privata, piuttosto che un diritto soggettivo naturale, sia un furto, e che, in base alla Costituzione, deve avere una funzione sociale, la decisione di sequestrare una struttura privata in piena attività per far fronte alla incapacità dello Stato di gestire la questione immigrati, per quanto strabiliante, ha una sua inevitabile logica.

Tra le tante aberrazioni della nostra cultura politica, collettivista e dirigista, c'è infatti la convinzione che diritti soggettivi naturali (alla vita, alla libertà, alla proprietà) e diritti sociali (alla copertura pubblica di bisogni collettivi, come la scuola, la sanità, le pensioni ecc.) siano incompatibili e che per tutelare i diritti sociali sia necessario limitare quelli soggettivi. Da qui la subordinazione di questi ultimi all'utilità sociale, all'interesse collettivo, al bene comune e quant'altro. Del resto, è la stessa Costituzione, nella sua prima parte, articolo 42, a stabilire che «la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti, allo scopo di assicurarne la funzione sociale...». Quanto all'attività economica dell'albergo in questione, sempre il dettato costituzionale, nell'articolo 41, sancisce che «l'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale... La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.» Si tratta di una formulazione che, con un paio di leggi di attuazioni, può trasformare l'Italia nell'ex Unione sovietica e che ricorda la stessa Costituzione sovietica del 1977, quando condiziona l'esercizio di diritti e libertà alla conformità di questi con i fini dell'edificazione comunista, o con gli interessi del popolo o allo scopo di consolidare e sviluppare il regime socialista...

Prima di intervenire sulla seconda parte della Costituzione, come fa la riforma Renzi-Boschi quando una revisione dei regolamenti parlamentari risulterebbe più utile ed efficace sarebbe finalmente ora di superare il tabù dell'inviolabilità della prima parte del testo costituzionale e modificarlo. Magari anche l'articolo 1, che ci rende l'unico Paese al mondo fondato su una merce (il lavoro). La verità è che la nostra Costituzione è una costituzione programmatica, nel senso che alle universali dichiarazioni di principio tende a sovrapporre una propria e prescrittiva visione del mondo. Ma le costituzioni «programmatiche» sono figlie del Novecento, il secolo dei totalitarismi. Identificano e assimilano, infatti, lo Stato al Parlamento e al governo. Hanno, così, una funzione di indirizzo delle future politiche pubbliche sia dell'uno che dell'altro.

Le costituzioni procedurali e liberali figlie dell'Ottocento, invece, fissano solo le procedure attraverso le quali Parlamento e governo formulano le politiche pubbliche, senza entrare nel loro merito. Il feticcio progressista della nostra pasticciata e anacronistica Costituzione andrebbe dunque finalmente abbattuto. Ma chi è disposto e pronto a farlo?

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