Coronavirus

"Se qui si scatena l'inferno...". Così scattò l'allarme in corsia

Maschere d'ossigeno, C-Pap, intubazione: quando poi il polmone si trascina dietro gli altri organi, non c’è più niente da fare. Così i malati di Covid muoiono nelle terapie intensive

"Se qui si scatena l'inferno...". Così scattò l'allarme in corsia

Per gentile concessione della casa editrice Historica pubblichiamo un ampio stralcio del capitolo Codogno, l'incidente della storia tratto da Il libro nero del coronavirus - Retroscena e segreti della pandemia che ha sconvolto l'Italia, scritto da Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini. L'opera, pubblicata l'anno scorso, è un viaggio a ritroso che svela al lettore tutti gli errori commessi nella lotta al Covid-19 durante la "fase 1".

«Bergamo ha avuto il grandissimo problema di Alzano Lombardo, che è stata una bomba atomica. Poi, c’era Cremona. Noi sapevamo 13. Il focolaio al bocciodromo di Orzinuovi è stato denunciato anche dall’ex ct della Nazionale, Cesare Prandelli, ma è stato smentito categoricamente dal consigliere di maggioranza Tiziana Brizzolari che è anche la figlia del presidente della bocciofila che sarebbe arrivato a Brescia perché eravamo accerchiati». Il caos per Francesca Serughetti, anestesista degli Spedali Civili, inizia il 24 febbraio. È in sala operatoria con un politraumatizzato che ha la febbre. In quelle ore sono già scattate tutte le indicazioni di prevenzione. Il paziente va intubato, la mascherina Ffp3 sarebbe obbligatoria. Ma non ce n’è nemmeno una. «Non eravamo ancora preparati...», ammette. Il politrauma arriva, infatti, nel blocco operatorio seguendo un percorso normale, ma rimane bloccato lì per almeno un paio d’ore. Di mascherine ne servono ben due: una per l’anestesista e una per l’infermiera che la deve assistere. Lo stallo fa sì che ci sia il rischio di farlo incrociare con un altro paziente che deve essere operato nella seconda sala. «In quelle ore – ci spiega – non sapevamo ancora come gestire quella promiscuità. Quando, poi, sono tornata a casa ricordo di essermi chiesta: ‘Se qui si scatena l’inferno, cosa facciamo?’».

L’inferno, nel giro di pochi giorni, si scatena con una potenza inaudita. Ma i medici, gli infermieri e il personale sanitario degli Spedali Civili di Brescia fanno un vero miracolo. E lo fanno nel giro di una sola settimana. La terapia intensiva viene interamente dedicata ai pazienti infetti. Nasce così la «Covid 1». I letti sono solo dodici e si riempiono all’istante. Gli studi dei medici vengono quindi smantellati e inglobati nel reparto. I letti salgono a venti, ma quelli liberi durano davvero poco. Così anche la cardiochirurgia viene riorganizzata e trasformata nella «Covid 2» che, a sua volta, si satura nel giro di poco tempo. Al picco dell’epidemia i reparti Covid saranno ben tre. La corsa, però, non è solo a recuperare nuovi posti letto. Servono anche i respiratori, la presa per l’ossigeno e quella per lo scarico del gas. È una corsa contro il tempo per salvare più vite possibile. Alcuni macchinari sono nuovi e non tutti hanno dimestichezza. «In una stanza in cui di solito mettevamo quattro letti, ce ne facevamo stare otto – spiega Serughetti – e il personale doveva saltare da un paziente all’altro, con un rischio di sbagliare altissimo dal momento che se ne vedevano tanti e tutti erano l’uno la fotocopia dell’altro». Le differenze tra un caso e un altro sono minime e, sin dall’inizio, appare chiaro che molto dipende dalla ventilazione del paziente e dalla pressione data alle vie aeree. «Il rischio di sbagliare era enorme – continua – il tempo di visitare l’ultimo paziente e il primo che avevi visto al mattino era già sconquassato».

Terapia intensiva a Brescia

La pressione sugli Spedali Civili è altissima. Non solo da Brescia e provincia. A Bergamo non c’è più posto e pure a Cremona il sistema non regge più. Non c’è il tempo per spostare i pazienti a Milano o, ancora più difficile, trasferirli extra regione. Quando arrivano c’è giusto il tempo per decidere se vanno intubati o meno e come aggredire il virus per provare a sconfiggerlo. Sin dall’inizio appare chiaro che la ventilazione non invasiva non è la strategia giusta. «Il problema – ammette Serughetti – è stato che per la ventilazione precoce non avevamo i posti e non avevamo i ventilatori». Le maschere d’ossigeno e i caschi C–Pap servono solo a guadagnare tempo. Tempo in cui i medici riescono a reperire nuovi posti. «Sapevamo che la dovevamo usare a lungo – continua – ma era l’unico modo per dare ossigeno a chi non ne aveva». Col passare delle settimane i medici si accorgono che pressioni troppo elevate rischiano di danneggiare i polmoni e, quindi, viene tutto ricalibrato alla luce di questa nuova scoperta. Anche perché non c’è alcun farmaco che può aiutare i pazienti. Dal Tocilizumab all’idrossiclorichina, le risposte sono troppo differenti per riuscire a stabilire una cura. «La verità è che i pazienti sopra una certa soglia di età non ce la facevano, perché avevano polmoni più rigidi – spiega ancora – potevi dargli qualsiasi medicinale, ma non ce la facevano... di settantenni, ne ho visti uscire davvero pochi dalla terapia intensiva». Tutt’altro discorso per i giovani: quasi tutti riescono a cavarsela. La differenza non è solo l’età, ma la stoffa del polmone. Alla fine, però, i casi più gravi muoiono perché vanno in insufficienza multiorgano. «Finché sono in terapia intensiva, cerchi di inseguirli su tutto – ci racconta Serughetti – li insegui sulla parte polmonare finché non ha più spazio per aumentargli l’ossigenazione. Quando poi il polmone si trascina dietro gli altri organi, non c’è più niente che possiamo fare per salvarli».

Terapia intensiva a Brescia

Quando i casi più gravi arrivano in ospedale, o sono già intubati e, quindi, non sono coscienti, oppure il medico deve spiegare loro che li addormenteranno per qualche giorno, in modo da far «riposare» i loro polmoni, per poi risvegliarli non appena staranno meglio. In quel momento puoi leggere nei loro occhi il terrore. Buona parte dei pazienti che si trovano nella «Covid 1» degli Spedali Civili di Brescia è in coma farmacologico. Non sente e non capisce nulla di quello che gli sta succedendo. Solo quando la loro situazione migliora i medici li fanno «riemergere»: li estubano e cercano di stimolarli per capire se riescono a interagire con il mondo esterno. Poco alla volta anche il paziente reagisce. «Immagina di essere sveglio e lucido, con una tracheo, cioè un buchino nella trachea, e non poter parlare...», continua Serughetti. Chi non ha voce, tenta di scrivere. Ma molti non hanno nemmeno la forza per prendere in mano una penna e mettere in fila qualche lettera che componga frasi di senso compiuto.

Terapia intensiva a Brescia

Niente può descrivere a fondo quello che i medici e gli infermieri devono vivere in prima persona. Non bastano le parole, non bastano gli aggettivi. Persino le immagini, che qualche talk show è riuscito a trasmettere, non rendono la drammaticità vissuta nelle terapie intensive. E, mentre alcuni giornalisti impugnano la penna per getta- re fango su un sistema sanitario (quello lombardo) che, nonostante l’eccezionalità dell’evento, regge e reagisce, gli eroi in camice bianco danno il meglio di sé, vincendo la paura e mettendo da parte il timo- re di sbagliare. Solo quando tornano a casa, possono lasciarsi andare e fare i conti con i propri fantasmi. In ospedale non è ammesso. Devono tener duro per cercare di fare il miracolo e salvare più vite possibile. Anche Serughetti, nel rivivere quei momenti, rivede tutta la squadra combattere senza mai risparmiarsi. «Ho colleghi, prossimi alla pensione, che avrebbero potuto ammalarsi e morire – ci spiega – nessuno di loro ha mai saltato un giorno di lavoro. Io avrei ben capito se un sessantaquattrenne, impaurito dal fatto di prendersi il Covid, magari faceva un passo indietro... non è successo. Anzi, sono stati i primi a mettersi in prima fila». È proprio questo a dare forza all’intera squadra e a sostenere emotivamente il singolo. Certo, poi c’è un momento in cui si deve fare i conti con tutto questo male. E quel momento varia da medico a medico. «Io sono stata lontana dai miei figli per trenta giorni – racconta ancora Serughetti – quando giocavo con loro in giardino, tenendo su la mascherina, sorridevo sempre perché non volevo che capissero la gravità della situazione. La sera, nella casetta che mi hanno prestato, sola, senza marito per- ché ricoverato e i due bambini lontani, vacillavo... il giorno dopo, però, tornavo sempre a lavorare e dare il mio piccolo contributo.

Probabilmente – conclude – lo pagheremo di più: quando calerà la tensione, magari salterà fuori qualcosa che per ora è sopito nell’inconscio».

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