Coronavirus

Le restrizioni di Conte & Co? La scienza boccia il numero 6

Su che base è stato messo il tetto di sei persone per gli incontri a casa o per il tavolo al ristorante? Ecco cosa dice la statistica

Le restrizioni di Conte & Co? La scienza boccia il numero 6

Dimmi come mangi e ti dirò chi sei, in tutti i sensi: la celebre citazione che rievoca certamente momenti più spensierati, calza a pennello in questo periodo di pandemia. Il nuovo Dpcm del Governo Conte firmato il 18 ottobre scorso "consiglia" in sei persone il numero massimo di persone che si possono ricevere in casa mentre obbliga in sei persone il numero massimo di commensali al tavolo di un ristorante.

A questo punto sorge spontaneo interrogarsi sulla ricorrenza di questo numero, il sei: perché non cinque o sette, ad esempio? La domanda può sembrare stupida, frivola, ma c'è più di un fondo di verità dietro al "magico 6". Per capirlo meglio abbiamo intervistato, in esclusiva, il Prof. Giuseppe Arbia, Professore Ordinario di Statistica Economica dell'Unviersità Cattolica del Sacro Cuore di Roma.

Egregio Prof. Arbia, qual è la ratio del numero 6? Perché questo numero?

"Non è un problema statistico, non so cosa abbia portato a determinare questo numero. Noi statistici siamo esperti di numeri, ma non in tutte le circostanze. In questo caso credo sia stato dettato da aspetti di natura virologica, non mi risulta che ci siano studi al riguardo che dicano che questo sia il numero massimo consentito".

Il numero 6 si può definire un numero sperimentale?

"Si potrebbe anche dare una base sperimentale ma, nella pratica, il numero 6 dovrebbe essere proporzionato a tanti parametri: lo spazio a disposizione, ad esempio. Un conto sono sei persone che stanno sedute in un tavolo da sei piuttosto che stare sedute in un tavolo da dodici o ancora più grande. Credo, tuttavia, che le regole debbano essere semplici e non troppo aperte a diverse inerpretazioni".

Che ruolo ha la statistica in questo caso?

"La statistica potrebbe essere di supporto facendo delle sperimentazioni ma, a quanto ne sappia, non ne sono state fatte e questo dato è stato basato, forse, sul buon senso".

"Sei persone? Nessuna evidenza scientifica"

Prima di proseguire con le altre domande rivolte al docente di statistica sulla simbologia legata al numero sei e sul "buon senso", gli fa eco un altro esperto sul campo, il Prof. Massimo Ciccozzi, Responsabile dell'unità di ricerca in statistica medica ed Epidemiologia molecolare all' Università campus biomedico di Roma ed autore di più di 270 pubblicazioni internazionali.

"Non c'è nessun lavoro scientifico che mi dica sei, sette, otto o cinque. Penso sia una scelta del Cts (Comitato tecnico scientifico, ndr), avranno le loro ragioni. La cosa importante è che quattro, cinque o sei siano distanziati", afferma Ciccozzi. "Forse il numero sei è un po' un compromesso tra la sicurezza di una persona nell'ambito della distanza di sei persone ad un tavolo e il non distruggere l'economia di un ristorante, il compromesso tra garantire la salute dei commensali, distanziandoli decentemente, e non distruggere l'economia di un'attività".

"Ci vuole il buon senso di tutti". Insomma, quel numero rappresenterebbe lo spartiacque, la linea sottile, tra la possibilità di non essere contagiati ed il rischio enorme che si incontra superando quel limite. Si, ma se sei persone si trovano racchiuse in casa in pochi metri quadrati? "Il senso è proprio il 'buon senso' delle persone: se noi diciamo che questo virus è contagiosissimo, nei luoghi chiusi è necessaria la mascherina - afferma Ciccozzi - Se a casa mia sto con sei amici che conosco bene, senza la mascherina stiamo ben distanziati soltanto a tavola, altrimenti gliela faccio indossare. Ci vuole il buon senso delle persone che sanno come devono comportarsi".

In attesa di un vaccino (e non è detto che funzioni), le uniche armi a disposizione per combattere la pandemia sono soltanto il distanziamento e le mascherine. "Non abbiamo altro: non c'è ancora un vaccino e dobbiamo comprendere che bisogna convivere con questo virus. Ci vuole del tempo", conclude Ciccozzi.

"La sperimentazione andava fatta prima..."

Da un Prof. all'altro, torniamo al prof. di Statistica Giuseppe Arbia, il quale ci ha svelato come, nel lungo periodo, sarà molto importante aver raccolto tutti questi dati. Se questo numero (6) limite funzionerà, si potrebbe dare una valenza statistica tra alcuni mesi?

"La sperimentazione dovrebbe essere fatta prima, non con il virus in corso, ma con delle simulazioni del virus. Di queste ne ho viste, ad esempio, quando alcune persone avevano in mano delle sostanze che, toccando oggetti o persone, potevano essere rilevate. La sperimentazione, però, deve essere fatta prima perché potremmo ritrovarci a dire che le misure sono state insufficienti. E questo sarebbe da evitare".

Per quella che è la sua conoscenza, in quali altri casi è stata fatta una sperimentazione a priori?

"Io ricordo di aver visto un servizio televisivo un esperimento credo in Cina, dove venivano sporcate, tramite una polverina, le mani ad una persona che era stata lasciata libera di muoversi all'interno di un ambiente con altri individui e, dopodiché, si constatava quanti oggetti e persone era state contaminate durante questa simulazione. Posso immaginare che studi di questa natura potrebbero aiutare a determinare un numero di riferimento. C'è da dire, però, che questo è un intervento di natura emergenziale: la sperimentazione finora non è stata fatta, ed oggi bisogna intervenire con questo numero, salvo poi correggerlo in futuro".

Perché nei mesi primaverili non è stata fatta una sperimentazione per vedere se questo numero 6 è quello corretto o meno?

"Non credo che ci sia da biasimare nessuno: è stata un'emergenza, ci sono state tante cose alle quali pensare ed a questa non si è dato spazio, magari c'erano cose più importanti come le sperimentazioni su cure, farmaci e vaccini, si è dato priorità a queste cose".

C'è qualcosa che accomuna statistica e pandemia?

"Assolutamente si, noi statistici siamo tutti mobilitati su questo aspetto: il primo controllo della pandemia avviene attraverso il monitoraggio dei numeri, siamo in prima linea a dire, ad esempio, che con i numeri che abbiamo a disposizione non è possibile fare previsioni accurate, perché abbiamo a disposizione dei dati raccolti senza seguire un preciso criterio statistico".

In che senso?

"I dati sono raccolti con criterio emergenziale e/o sanitario, ad esempio per quel che riguarda i tamponi. Questi dati sono inservibili al fine di fare delle generalizzazioni relative all'intera popolazione. Ad oggi, per esempio, non siamo in grado di dire quante persone siano entrate in contatto con il virus in Italia. Possiamo rilevare il numero delle persone infette che abbiamo rilevato tramite le operazioni giornaliere di somministrazione dei tamponi, ma le abbiamo rilevate perché siamo andati a cercarle".

Che differenza c'è tra i tamponi di prima e quelli di adesso?

"In un primo periodo, i tamponi venivano effettuati a chi aveva almeno tre sintomi, ultimamente anche a chi è entrato in contatto con individui positivo. Andiamo a cercare, in partica, persone nelle quali è elevata la probabilità di trovare il virus. Per avere una fotografia fedele della diffusione del virus, invece, bisognerebbe raccogliere i dati in maniera maggiormente obiettiva, osservando dei campioni nei quali possono essere inclusi, con le giuste proporzioni, sia gli infetti (sintomatici , paucosintomatici ed asintomatici) sia le persone sane".

A fine pandemia, quindi, la statistica sarà viziata o no dalla situazione iniziale?

"A posteriori sarà diverso, perché su certi dati avremo la possibilità di osservare grandezze obiettive. Ad esempio, purtroppo, il dato dei decessi è una grandezza abbastanza obiettiva e non soggetta a distorsioni. Non è possibile, guardare, invece, il dato degli infetti perché questi sono raccolti con finalità diverse. La statistica fa uso dei dati, ma il risultato dipende dal criterio col quale tali dati sono stati raccolti".

Rispetto ai primi mesi, nonostante ci troviamo in piena seconda fase, c'è una differenza statistica rispetto a quanto avveniva in primavera?

"Se guardiamo grandezze che possono essere misurate in maniera quasi obiettiva, come i decessi o i ricoverati in terapia intensiva, la dinamica attuale è molto spinta. Tuttavia, confrontata con la dinamica della prima esplosione pandemica, essa è ora più rallentata. Non stiamo certo tranquilli perché stiamo osservando un'accelerazione e nei prossimi giorni potremmo raggiungere gli stessi livelli".

Cosa si sente di dire in conclusione?

"Insieme a due ex presidenti dell'Istat (Alleva e Zuliani) ed altri colleghi, abbiamo presentato un'idea già alla fine di marzo, per un campionamento di dati che avesse la sola finalità statistica e fosse condotto secondo i criteri rigorosi della metodologia statistica. Tale proposta è stata presentata anche a riviste scientifiche internazionali e rilanciata di recente da Alleva e Zuliani dalle colonne del Corriere della Sera. All'epoca, proponevamo di raccogliere qualche migliaio di tamponi ogni 15 giorni. Tuttavia in quel periodo i tamponi erano solo poche migliaia e si avevano grandi difficoltà a raccoglierne in un numero superiore; così la proposta è apparsa improponibile. Oggi, però, osserviamo spesso 150mila tamponi al giorno.

Se, diciamo, cinquemila di questi venissero dedicati ad una finalità statistica e non puramente sanitaria, con obbligo di risposta in forza dell'emergenza, ne guadagnerebbe molto la conoscenza del fenomeno e la capacità di monitorare e controllare la pandemia".

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