Cronache

La semplificazione che discrimina

Il latente modo di pensare degli ultimi vent'anni ci ha convinto che la semplificazione significasse liberarci dalle complessità. Ma da quel sogno, o da quell'illusione, ci svegliamo più discriminati

La semplificazione che discrimina

Qualche giorno fa, guardando un programma televisivo della rete nazionale, mi sono imbattuta nella riflessione di un giornalista che mi pare descriva molto bene la realtà attuale di ciascuno di noi: ci stiamo svegliando dal sogno – o, forse, dall’illusione – della semplificazione. Quante volte ci siamo sentiti oppressi dalla complessità! «È difficile gestire una scuola, far quadrare un bilancio… Le strutture ci soffocano: meglio essere liberi! Ecco, sì: meglio la destrutturazione. Liberiamoci dalla complessità!». Questo modo latente di pensare, che risale a un ventennio fa, è giunto fino ai nostri giorni, convincendoci dapprima che elevarsi è inutile, poi che è frustrante. Eh sì, perché, nel tentativo di elevarci, possiamo incorrere in diverse frustrazioni. E così abbiamo finito per puntare tutti in basso: abbiamo livellato tutto, ci siamo livellati… E abbiamo smesso di studiare e di fare ricerca (tranne poche eccezioni, che sono fuggite via). Abbiamo pensato che, giocando al ribasso, non solo ci saremmo liberati dalla complessità, ma saremmo diventati tutti più uguali: fratelli.

Abbiamo dunque cominciato a cancellare dal nostro vocabolario le parole che dividono: “meritocrazia”, “valutazione”, “competenze”, “eccellenza”, “ricerca”, “cultura”, “specificità”… E così abbiamo creduto al Paese dei Balocchi e a chi ci prometteva che non avremmo più dovuto faticare per mangiare: «I soldi ci sono e ci sono per tutti! Non impegnarti a cercare un lavoro: ti arriverà direttamente a casa. L’ascensore sociale non serve, meglio l’ammortizzatore sociale!». E, piano piano, la non conoscenza diventa la carta vincente di certi poteri deboli, che preferiscono dei sudditi a dei cittadini liberi, raziocinanti, indipendenti e costruttivi. Quindi potenzialmente critici.

«Quei poveri illusi, quei disperati che sognano la libertà (educativa, di stampa, etc…) devono capire che è un bene di lusso che va pagato. Non ti va bene la scuola pubblica statale, che è per tutti? Vuoi davvero scegliere per tuo figlio fra una buona scuola pubblica statale e una buona scuola pubblica paritaria, come fanno tutti i genitori in Europa? Beh, allora te la paghi! Non puoi? In tal caso… “No, tu no!”». Questo è il ritornello ricorrente, ed è così martellante da disabituare la gente a scegliere: i genitori smettono di chiedere di poter scegliere e si adeguano. Si adeguano i docenti delle pubbliche paritarie, che - a parità di titolo - non possono scegliere, a differenza dei colleghi francesi, se insegnare in una scuola pubblica paritaria o statale. Perché in Italia la libertà si paga con la rinuncia a un posto fisso e a uno stipendio più alto. «No, tu no!».

E le scuole pubbliche paritarie, garanzia di pluralismo e antidoto al regime, cadono a colpi di piccone sotto la mano feroce della burocrazia, della crisi che le affama prima di alunni, poi di docenti. Piano piano, ci si abitua, e pare normale che scompaiano... Proprio loro, patrimonio secolare di una Nazione che grazie ad esse è uscita dalle rovine della Prima e Seconda Guerra Mondiale, si è risollevata dall’analfabetismo, ha tolto i ragazzi dall’emarginazione e dalla strada. Come non pensare alla Montessori, al Biraghi, a don Bosco, a don Milani?

In tal modo, si giunge a dimenticare che il diritto alla libertà di scelta in educazione è prioritario, che conta più di un pezzo di pane. Lo Stato, che riconosce per legge il diritto alla libertà di scelta dei genitori e al pluralismo educativo, dovrebbe anche garantire questi diritti, come avviene in tutti i Paesi europei, e potrebbe farlo a costo zero, come ampiamente dimostrato, attraverso il costo standard. Preferisce, invece, spendere molto e molto di più, perché l’alternativa sembra complessa, richiede studio e competenza… Meglio semplificare, anche a costo di discriminare i genitori, e in particolare le fasce più deboli, con un sistema scolastico dai costi elevati e fuori controllo. Nessuno stupore: la discriminazione di solito non fa affatto risparmiare. E puzza di razzismo: «Qui (nella libera scelta educativa) poveri e disabili non entrano»!

Chiedo ai nostri politici che cosa ne pensano, loro che – ben stipendiati dai genitori italiani - possono scegliere la buona scuola pubblica paritaria per i propri figli senza battere ciglio. Chiedo ai cittadini più fragili se può esserci, nella giornata pesante di una famiglia di oggi, ancora spazio per l’indignazione. Chiedo a tutti i docenti se desiderano ottenere il rispetto della loro professionalità, per il bene delle generazioni future. E chiedo alle scuole statali se, a loro parere, sia giusto che i genitori italiani paghino 10.000 € per l’istruzione del figlio in un istituto in cui poi mancano carta igienica e docenti, per il fatto che non si ha più la forza di rivendicare una giusta autonomia e una buona gestione. Siamo sicuri che sia giusto indebitarsi per sfamare il povero e non per educarlo alla libertà? Sì, perché alla libertà ci si educa.

Eppure, è soltanto ripartendo dalla scuola e dalla cultura che potremo risollevare le sorti della Nazione, andando oltre ogni logica di assistenzialismo.

I nostri padri fondatori avevano immaginato una Costituzione che volasse alto. Gli ideali della politica erano elevati: il diritto allo studio, alla libertà di pensiero e di parola, il diritto alla salute, il diritto all’associazione. L’Italia aveva ancora fresche le ferite della guerra: non ci si poteva permettere una semplificazione che giocasse al ribasso. E, mentre puntavano in alto, i politici ascoltavano seriamente la base. Come scordare le resistenze di Calamandrei all’approvazione dell’art. 32 della Costituzione? Egli non era contrario al diritto alla salute così come pensato in quell’articolo, ma temeva che esprimesse un ideale troppo alto da raggiungere, comportando il rischio di passare per bugiardi, qualora non si fossero mantenute le promesse fatte. Oggi, invece, l’abbassamento di livello del linguaggio ha condotto a un “eccesso di semplificazione”, che finisce inevitabilmente per produrre una perdita di progettualità. Si è iniziato col dire che ci sono diritti importanti, ma di difficile applicazione; che il costo standard, pur garantendo la libertà di scelta educativa e pur facendo risparmiare tanti danari all’erario, è complesso da spiegare, e peggio ancora da applicare: meglio allora non parlarne. Se parliamo di scuola, trattiamo solo di educazione fisica, palestre, collocamento. Insomma, teniamo il nocciolo duro mummificato. Tanto ci si abitua. In tal modo, il linguaggio si riduce a slogan, a tweet, e si insinua la convinzione che qualsiasi problema, per quanto complesso, sia di facile soluzione. «Ci penso io, è semplice! Zitto tu, che hai la tendenza a complicare!».

Si finisce così per banalizzare, annullando le specificità: tutti possono essere capaci di far tutto… persino i ministri. Insomma, ci si deve far perdonare la competenza, la cultura, la verità. Ma io non ci sto. Non mi ci abituo.

E rilancio, puntando in alto, attraverso le parole di Luigi Einaudi: «Il danno recato dal monopolio statale dell’istruzione non è dissimile dal danno recato da ogni altra specie di monopolio».

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