Cronache

«Un settore civile protagonista, alla pari con pubblico e privato»

L'esperto: «A partire dal termine terzo settore, si è imposta una visione residuale del ruolo di associazioni e imprese sociali. Approccio da ribaltare»

Forse è giunto il momento di non chiamare più «terzo settore» il mondo delle associazioni, delle Onlus, delle cooperative e delle imprese sociali. «Il termine - spiega Stefano Zamagni, economista, professore all'Università di Bologna, dal 2013 membro ordinario della Pontificia Accademia delle Scienze su nomina di Papa Francesco - è stato coniato dal ministro delle Finanze francese, Jacques Delors, nel 1981, mutuandolo dal concetto di Terzo Mondo, che suggeriva una terzietà rispetto ai sistemi capitalistici e a quelli socialisti. Gli americani, invece, avevano creato il termine non-profit, ovvero organizzazioni che erogano servizi e prodotti senza finalità di profitto. Oggi sarebbe meglio - continua Zamagni - parlare di settore civile, comprimario e non subalterno a quelli pubblico e privato. Questo ci aiuterà a mettere in gioco quel principio di sussidiarietà contenuto negli articoli 118 e 119 della Costituzione». C'è però da affrontare la questione dell'indipendenza economica delle organizzazioni del settore civile. Quanto pesa il 5x1000? «È un buon strumento, per il quale quest'anno è stato innalzato a 500 milioni il tetto da parte del Governo. Occorre però ricordare che questo ammontare va distribuito tra una platea di circa 200mila soggetti. Se vogliamo che il settore civile divenga comprimario e non residuale, sono necessari altri provvedimenti finanziari e giuridici. La riforma in corso va nelle giuste direzioni. Completa, a esempio, il discorso sulle imprese sociali, senza fini lucrativi, già iniziato nel 2006. Da allora sono sorte circa 700 organizzazioni di questo tipo, che operano in ambiti in cui le aziende capitalistiche hanno meno interesse a intervenire».

Un'altra innovazione essenziale è quella dei Social impact bond, uno strumento per la raccolta di fondi dal mondo privato. «Sono obbligazioni di impatto sociale nate nel Regno Unito e già diffuse in altri Paesi. In Italia c'è chi teme che il Sociali Return on Investments (Sroi) si tramuti nel Return on Investments (Roi) delle aziende a fini di lucro. In astratto il rischio esiste, ma può essere evitato riconducendo gli indicatori alla base dei bond ai valori tipici del non-profit. Si può, a esempio, assegnare un rating maggiore alle aziende che riescono a offrire più lavoro alle persone residenti nel loro territorio. Ciò costituirebbe un fattore di rilancio dell'occupazione e, in definitiva, anche dell'economia del Paese. Un altro aspetto su cui si accenderà la discussione nei prossimi mesi è quello della governance. Secondo me dovrebbe essere il più democratica possibile.

Solo così il settore civile potrà contribuire a rilanciare in Italia quel concetto di Civitas che abbiamo inventato più di 2mila anni fa».

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