Lo squisito Artusi, cuoco colto e letterato

Non apro l'Artusi per leggere le ricette, non essendo un cuoco nemmeno dilettante: lo apro per leggere

Lo squisito Artusi, cuoco colto e letterato

Non apro l'Artusi per leggere le ricette, non essendo un cuoco nemmeno dilettante: lo apro per leggere. Anziché gustarmi l'aringa, le arselle, la beccaccia (non saprei neanche dove procurarmele), assaporo il lessico, lo stile, il tono, le citazioni... Al posto della «lingua di vitella», la lingua italiana. Del resto Pellegrino Artusi (1820-1911) prima che gastronomo fu letterato: scrisse una vita di Ugo Foscolo, che certo meriterebbe un'occhiata, e un commento alle lettere di Giuseppe Giusti, che mi alletta meno e comunque risulta difficile da reperire. Dunque non bisogna sorprendersi se nella Scienza in cucina, un libro che si presenta come «manuale pratico per le famiglie» ossia quanto di più pragmatico e alla mano, vengano citati Renato Fucini e Alessandro Dumas, Niccolò Machiavelli e per l'appunto l'autore dei Sepolcri... Come se oggi nei ricettari di Benedetta Rossi («le ricette più golose del web») comparissero i nomi di Croce e Montale. Figuriamoci.

Dell'Artusi degusto dunque le parole. Spesso, com'è ovvio essendo passato più di un secolo, si tratta di arcaismi. Oppure di toscanismi, altrettanto ovvi per uno scrittore sì romagnolo ma residente da quarant'anni a Firenze, e una Firenze culturalmente ben più cruciale di quella odierna: la Firenze delle case editrici e dei pittori macchiaioli, dei fotografi Alinari e di Collodi, di D'Annunzio e di Berenson, di Boldini e di Böcklin... Pittori e scrittori confluivano dal Nord come dal Sud, per risciacquare i panni in Arno partivano fin dalla Sicilia e lo provano i lunghi soggiorni di Verga e De Roberto. Ecco pertanto nelle pagine del longseller pubblicato nel 1891 spuntare «arnione» per dire rognone, «cieche» per dire anguille piccole, «petonciano» per dire melanzane...

Il gran gastronomo era un purista, sebbene non fanatico. I forestierismi lo infastidivano ma, da uomo pratico, sapeva che spesso bisogna adattarsi: «Ormai in Italia se non si parla barbaro, trattandosi specialmente di mode e di cucina, nessuno v'intende; quindi per esser capito bisognerà ch'io chiami questo piatto di contorno non passato di... ma purée di...». Cerca di salvare il salvabile, ad esempio quando per citare Brillat-Savarin è obbligato a scrivere «fondue», subito dopo traduce: «cacimperio». Fantastica parola di cui purtroppo si sono perse le tracce, provate a chiedere un cacimperio al vostro delivery preferito. Artusi a un certo punto, precisamente alla ricetta 122, si mostra sconfortato: «L'uso ha prevalso, ed è giocoforza subirlo». Come lo capisco, io che non mi sono ancora rassegnato, io che non intendo subire i menu colonizzati e che quando leggo «chips», «crumble», «lime», passo al piatto successivo e pazienza se mi piace meno. Ai suoi tempi l'idioma invasore era il francese, oggi è l'inglese, anche più barbaro perché nemmeno neolatino. Se mi parlano di «muffin» penso alla muffa: non mangio dolci andati a male, se tanto vi piacciono mangiateveli voi. E non vi dico cosa mi suggerisce la parola «cake».

La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene non è solo un ricettario, in certe pagine diventa un viaggio in Italia, con relative disavventure: «A Pompei in un ristoratore in cui ci aveva preceduto una comitiva di tedeschi ci fu servito il medesimo trattamento di loro. Venuto poi il padrone a chiederci gentilmente se noi eravamo rimasti contenti, io mi permisi di fargli qualche osservazione sullo sbrodolio nauseoso dei condimenti...». Alcuni passaggi più che al Cucchiaio d'argento o ad Antonino Cannavacciuolo fanno pensare a Piovene: «Sono per altro i Bolognesi gente attiva, industriosa, affabile e cordiale...». Ma molto più in là del Conte Viaggiatore (morto nel 1974) non andiamo. Di Pellegrino Artusi oggi non vedo eredi. Nel Novecento italiano sono stati parecchi i letterati capaci di digressioni gastronomiche anche corpose: Filippo Tommaso Marinetti (Manifesto della cucina futurista), Paolo Monelli (Il ghiottone errante), Denti di Pirajno (Il gastronomo educato), Aldo Buzzi (L'uovo alla kok), e più di loro Mario Soldati e più di Soldati l'enorme Gianni Brera. Negli ultimi anni, anni di ricettari illeggibili di telecuochi e foodblogger, il libro di cucina scritto meglio mi è parso quello di Tommaso Melilli, I conti con l'oste (Einaudi), un trentenne cremonese di cui però non mi sovviene produzione extragastronomica. Insomma questo Artusi di centotrent'anni (inteso come libro) e di due secoli (inteso come autore) non possiamo mandarlo in pensione. Qualcosa mi dice che nel breve periodo, anche nel medio, nessuno azzarderà nuovamente un incipit del genere: «Due sono le funzioni principali della vita: la nutrizione e la propagazione della specie».

Le ricette del vecchio borghesone dagli incredibili favoriti risultano le più ideologicamente audaci di tutto lo scaffale culinario, trovandosi spesso fra gli ingredienti un pizzico di classismo, una manciata di sessismo, una spolverata di patriottismo e antiveganesimo quanto basta («Non appartenendo io alla setta dei pitagorici...»). Con in più l'edonismo linguistico che può offrirci soltanto uno scrittore vero.

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