Mario Draghi, per usare le parole dei vescovi italiani, è l'uomo della Provvidenza. Per il presidente della Confindustria dovrebbe restare a Palazzo Chigi non solo oggi, ma anche in futuro, dopo le elezioni del 2023. Sergio Mattarella, da parte sua, ha un alto indice di gradimento e i sette anni trascorsi al Quirinale ne hanno aumentato il prestigio. Per cui è naturale che l'altra sera Draghi, che del pragmatismo ha fatto una religione, si sia lasciato andare ad una battuta con l'inquilino del Colle: «Se resti tu, resto anch'io». Un'ipotesi magari pronunciata solo per cortesia in ossequio al galateo, ma che era nell'aria perché per Draghi rappresenterebbe una sorta di quadratura del cerchio: Mattarella verrebbe confermato, lui continuerebbe a fare il Premier e poi, quando il Capo dello Stato si sarà stancato, sarebbe quasi naturale che gli succedesse al Quirinale. La tipica staffetta.
Solo che questa idea, che pure mantiene ai vertici delle istituzioni due personalità stimabilissime e potrebbe piacere tanto a Enrico Letta che, sprovvisto di candidati per il Colle, è costretto a giocare in difesa e a prediligere lo «status quo», pone una serie di problemi non indifferenti. Di fatto determinerebbe una sorta di commissariamento del Parlamento, un po' come fu la rielezione di Giorgio Napolitano. Il che, di per sé, non è una bella cosa. Inoltre, come in quell'occasione, si assegna un secondo mandato al Capo dello Stato in carica trasformando sulla carta la Presidenza in un Papato (nella storia della Chiesa solo 46 Pontefici hanno occupato il soglio di San Pietro per più di 14 anni). Non sarebbe il massimo per una democrazia, tant'è che l'unico che nei lavori della Costituente si schierò in favore di un secondo mandato consecutivo fu quel comunista di Palmiro Togliatti, abituato ai tempi del Cremlino.
Eppoi, a proposito dell'altro ruolo, anche se per alcuni potrebbe essere auspicabile, come si può immaginare fin d'ora che Draghi possa guidare il governo anche dopo il 2023? Se tutto fosse così scontato, ineluttabile, non si capisce per quale motivo gli italiani dovrebbero essere chiamati a votare, o, peggio, bisognerebbe chiedersi a cosa servano le elezioni. L'ultimo appunto riguarda i partiti. Saranno davvero ridotti male, saranno pure commissariati, ma almeno un merito lo hanno avuto: si sono presi l'impegno e hanno avuto il coraggio di mandare a Palazzo Chigi, in un momento d'emergenza, uno come Draghi. C'è chi, appoggiando questa operazione, ha sacrificato consensi (vedi Salvini) e chi ha messo a repentaglio alleanze (vedi Letta, costretto ad accompagnare alla porta Giuseppe Conte). Quindi, questa classe politica, sia pure «sgarrupata», si è fatta carico di una responsabilità.
Per cui presentargli oggi, d'emblée, un organigramma che prestabilisce fin d'ora chi addirittura nei prossimi cinque anni sarà al vertice delle istituzioni nel ruolo di garante (Presidente della Repubblica) e chi di capo dell'esecutivo (il Premier), senza dargli nessuna voce in capitolo, non solo è irrituale, ma è anche, diciamo la verità, una mancanza di rispetto.
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