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SuperMario e il conto da pagare alla politica

Trentaquattro giorni dopo il suo insediamento a Palazzo Chigi, la politica presenta il conto.

SuperMario e il conto da pagare alla politica

Trentaquattro giorni dopo il suo insediamento a Palazzo Chigi, la politica presenta il conto. E bussa alla porta di Mario Draghi con il suo vero volto, molto più «sangue e merda» (per usare l'aforisma caro a Rino Formica) che «spirito di unità nazionale» (come recita la formula con cui è stato battezzato questo governo). È la politica del compromesso e della mediazione, infatti, quella che manda in stallo per una giornata intera l'esecutivo guidato dall'ex presidente della Bce. Che, almeno stando all'approccio delle precedenti 24 ore e all'agenda che si erano immaginati nell'entourage del premier, non aveva affatto messo in conto un'impasse tanto clamorosa.

Sul decreto Sostegni, infatti, va in scena il primo vero braccio di ferro interno alla variegata maggioranza che sostiene il governo. Con la Lega in particolare che punta i piedi per una «soluzione non al ribasso» sul tema della cancellazione delle vecchie cartelle esattoriali. Al punto che la delegazione del Carroccio si ritrova al ministero dello Sviluppo economico guidato da Giancarlo Giorgetti poco prima della riunione del Consiglio dei ministri, inizialmente convocato per le 15. Sul tema anche Forza Italia insiste per un «intervento più deciso», mentre il Pd vuole paletti stretti per evitare che il provvedimento diventi una sorta di «condono camuffato». Dalla Lega filtra la minaccia di non partecipare al Cdm. Che slitta alle 16, ma non inizierà se non dopo le 18. A cascata, viene rinviata anche l'attesa conferenza stampa del premier, la prima da quando si è insediato a Palazzo Chigi. Convocata per le 18.30, scivola pericolosamente non certo per colpa di Draghi, ma per lo stallo che si è venuto a creare in «zona Conte». L'ex premier, infatti, era solito dedicarsi a conferenze stampa in prime time, convocate all'ultimo minuto utile e dopo Consigli dei ministri fiume. Esattamente quello che l'ex governatore si era ripromesso di non fare.

Alla fine per gli amanti dei numeri alle 20.02 Draghi si presenta davanti ai giornalisti. Parte un po' rigido, soprattutto durante la sua introduzione sul decreto Sostegni appena approvato. Si scioglie decisamente appena inizia a rispondere alle domande dei giornalisti. Lo stile sembra poco studiato, ma soprattutto molto pragmatico. Termine che, non a caso, il premier usa più volte durante la conferenza stampa (parlando di vaccini, di Mes, di Europa). Di certo, è sempre sintetico nelle repliche. Circostanza che salta ancora più agli occhi, visto che l'approccio del suo predecessore era esattamente l'opposto: retorico, spesso persino ridondante.

Come era ampiamente prevedibile, Draghi parla lungamente del piano vaccinale. Ma non si sottrae alle domande più squisitamente politiche. Sta prendendo confidenza anche lui con i consumati riti del Palazzo. Così, nonostante la lunga trattativa sulle cartelle esattoriali, parla di «un'esperienza molto soddisfacente». Perché, spiega, «l'impressione che ho avuto dal Consiglio dei ministri di oggi» è quella della «condivisione di tutti intorno a un tavolo» cercando di «conciliare vedute diverse». Sul punto, a domanda esplicita sulla Lega, tornerà alla fine della conferenza stampa. «Tutti hanno bandiere identitarie, ma - spiega il presidente del Consiglio - si tratta ora di chiedersi quali bandiere abbiano un senso e a quali si può invece rinunciare senza fare un danno alla propria identità e all'Italia».

Smussa, dunque. Come è giusto che sia. Ma lo fa con poche parole e concetti concisi, cosa che rende il messaggio molto efficace. Al punto che il braccio di ferro di pochi minuti prima, quasi passa in secondo piano.

È allo stesso modo efficace quando gli chiedono quale sarà la durata del suo governo, con chiaro riferimento ai rumors che lo danno come papabile per la successione a Sergio Mattarella a febbraio del 2022. «L'orizzonte temporale dell'esecutivo - dice - lo deciderà soltanto il Parlamento».

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