La toga che vuole l'Italia pura ​non usa l'incenso ma le manette

Da Mani pulite in poi il presidente dell'Anm ha un unico credo: non esistono innocenti, solo colpevoli da incastrare a tutti i costi

La toga che vuole l'Italia pura ​non usa l'incenso ma le manette

Le sue massime, poco importa se vere o verosimili, costituiscono ormai un genere letterario. E sono un metronomo dell'Italia da Mani pulite in poi. Piercamillo Davigo sta tutto in quelle parole, sempre in bilico fra suggestione e provocazione: «In Italia non ci sono troppi detenuti, ma troppe poche carceri». Una grammatica chiara: molti arresti, pene alte, zero pietà. Più detenuti e meno gente in giro. Il magistrato lombardo è in prima linea da una vita e non ha mai cambiato il suo metro di giudizio. Così tutti gli appiopparono una frase che in realtà fu pronunciata per la prima volta da Giuliano Ferrara: «Rivolteremo l'Italia come un calzino». Battuta disconosciuta e però perfettamente calzante sul Davigo-pensiero.
Sempre un metro avanti, sempre paradossale, sempre urticante e spiazzante. Era così ai tempi del Pool, quando gli fu attribuito un altro adagio - in compartecipazione con Marco Travaglio, come ha annotato sulla Stampa Mattia Feltri - «non ci sono innocenti, ma colpevoli ancora da scoprire». Oggi, vent'anni e passa dopo, non è più pm ma giudice, non è più a Milano ma a Roma, non sta più in tribunale ma in Cassazione. E però tutti questi sono dettagli, la sostanza è immutata. Quando c'è da polemizzare lui non si tira indietro, sempre sicuro di sé, con la sua visione dell'universo in bianco e nero. Senza tante sfumature. Così se Renzi accusa i pm di Potenza perché non arrivano a sentenza, toccando uno dei tanti nervi scoperti dell'azione giudiziaria, lui replica tranchant: «È colpa della prescrizione». Una spiegazione che fa felici girotondini, grillini e giustizialisti doc, ma che convince solo a metà. «La verità - spiega al Giornale un collega di Davigo - è che le cause di questa lentezza sono molteplici, ma un aspetto non può essere trascurato, anche se non se ne parla mai: ci sono pm che vogliono fare le inchieste, ma non i processi. In aula, a dibattimento, mandano magari un collega che non sa nulla di quello che è successo in precedenza e che deve ricominciare da capo».

Davigo non coltiva questo dubbio o non lo manifesta. È troppo innamorato di se stesso e impegnato a difendere il ruolo, anzi la missione che la legge gli ha affidato. A maggior ragione adesso che è diventato il potente presidente dell'Associazione nazionale magistrati, il temuto sindacato delle toghe tricolori. Dal palco della sua notorietà, il magistrato cita come esempio di inchiesta addirittura eroica quella su Abu Omar e i servizi segreti che a suo tempo aveva provocato scintille fra poteri e fra l'Italia e gli Usa. No, lui va dritto per la sua strada e tributa la standing ovation ad Armando Spataro, altro peso massimo della magistratura italiana, oggi procuratore a Torino. Allo stesso modo taglia con un colpo solo nodi aggrovigliati da un quarto di secolo. Interviene a gamba tesa sulle intercettazioni, oggetto di una querelle interminabile, più lunga di Beautiful. «È sufficiente - è la presa di posizione, disarmante, del neopresidente dell'Anm - la legge sulla diffamazione. Il resto è superfluo». Dove, oltre allo snobismo di chi neanche prende in considerazione le questioni sollevate da più parti, quel che conta è il non detto, per lui sottinteso: quando si captano con cimici e microspie le conversazioni altrui non serve fare gli schizzinosi. L'intercettazione è come il maiale: non si butta via niente. Quando l'ormai ex ministra Federica Guidi dice al fidanzato: «Mi hai trattato come una sguattera del Guatemala», e quelle parole così private e intime finiscono in pasto sulla tavola di milioni di italiani, quella per lui non è una violazione possibile della privacy, ma la spia di una relazione che interessa molto al magistrato, perché potrebbe illuminare il reato su cui s'indaga, in quel caso il traffico di influenze, lo sciagurato illecito introdotto qualche anno fa nel nostro codice. Conclusione: quelle parole possono essere divulgate senza problemi perché aiutano a dipanare la rete criminale.
Certo, i politici s'inalberano e parlano un giorno sì e l'altro pure di invasione di campo. Lui li lascia strepitare e di fatto replica riproponendo sempre lo stesso concetto: i giudici applicano le norme che i partiti hanno scritto. Se quelle leggi non vanno bene, basta riscriverle. Dove il non detto questa volta è lo scalino, alto, che separa i giudici dal Palazzo. I magistrati, nella concezione aristocratica del Pool, hanno il compito di purificare la società. Manca l'incenso, ma ci sono le manette. E c'è la corazza foderata con l'acciaio dell'autostima di chi si ritiene parte di un'élite che non deve chiedere permessi o lasciapassare a nessuno. Da questo punto di vista se Di Pietro era un super poliziotto, Davigo è il magistrato più magistrato che sia mai passato nella cittadella di Porta Vittoria. Attenzione: tirare in ballo le toghe rosse o quelle azzurre sarebbe fuorviante. La sacralità della toga non ha nulla a che fare con le categorie della destra o della sinistra; no, la toga, secondo questo schema, sta da un'altra parte, più in alto. E non deve contaminarsi con queste dinamiche.

Per la cronaca Davigo non è mai stato di sinistra; di sinistra nel Pool era Gherardo Colombo che poi ha lasciato la magistratura, è entrato nel cda della Rai ed è arrivato fino quasi a candidarsi a Milano come sindaco per la sinistra radicale. Davigo semmai era ed è di destra, ma la sua destra non si trova nella geografia del Palazzo. I suoi riferimenti sono lontani nel tempo: Cavour, il barone Ricasoli, la scrivania di Quintino Sella. È la destra storica, zero chiacchiere e tanto rigore. Mito più che realtà. E però per lui che è nato a Candia Lomellina, Lombardia piatta come un'ostia che un tempo era agganciata al Piemonte sabaudo, lo Stato dev'essere puro e smacchiato come un vestito, inflessibile con chi lo svilisce. L'unica ambizione di chi ne fa parte, dal magistrato al burocrate fino al funzionario, è quella di indossare la giubba del re, insomma dimostrare zelo e fedeltà. Fino a farne un programma di vita e il titolo di un saggio sulla corruzione. Se Di Pietro attaccava i Craxi e i Forlani con la bava alla bocca, il pane di Davigo, nella stagione gloriosa del Pool, erano i finanzieri che si erano venduti. È lui a contestare per la prima volta l'associazione a delinquere ai militari colti con le mani nel sacco e a perquisire il Comando generale in viale XXI Aprile a Roma. Una profanazione. Secondo lui un atto necessario per un Corpo che dovrebbe essere immacolato.
Torniamo sempre lì: estirpare il male, al fonte battesimale delle procure. E colpire le amnesie e le titubanze dei governi, Berlusconi o Renzi non fa differenza. Così Davigo bolla il nuovo presidente del Consiglio: definisce l'esecutivo «poco dialogante», liquida con una punta di fastidio l'uscita sulle troppe ferie dei magistrati.

E, conversando con Repubblica, invoca gli agenti sotto copertura ammirati negli Usa dove ha scoperto i test di integrità: poliziotti coperti che offrono denaro ai politici: «Chi lo accettava veniva arrestato». Un modello che lui porterebbe subito in Italia.

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