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Ma uccidere non può essere una conquista

Mai vorrei scrivere di suicidio, e figuriamoci di suicidio assistito. Di più: mai vorrei pensarci, mai vorrei che un'immagine così triste turbasse la normalità della mia giornata

Ma uccidere non può essere una conquista

Mai vorrei scrivere di suicidio, e figuriamoci di suicidio assistito. Di più: mai vorrei pensarci, mai vorrei che un'immagine così triste turbasse la normalità della mia giornata. Ma, come spesso accade, la realtà mi tira la testa fuori dalla sabbia. «Felice per Mario», sento dire. Dove Mario è un uomo di Pesaro che da oltre dieci anni si ritrova tetraplegico, per colpa di un incidente, e non ce la fa più e vuole morire e adesso, dopo la decisione del comitato cosiddetto etico dell'azienda sanitaria marchigiana, potrà farlo. Vorrei anch'io essere felice per Mario, felice con Mario, felice insieme a chi si dice felice per Mario, ma purtroppo non riesco. Io, in questa storia, di felicità non riesco a vederne un grammo. Al contrario ci vedo una grandissima, universale disperazione. Non mi metterò certo a giudicare Mario né i famigliari di Mario, non mi permetto proprio. Purtroppo sono afferrato dalla tentazione di giudicare gli entusiasti di questo esito e so che devo divincolarmi: «Non giudicate per non essere giudicati» dice il mio maestro nel Vangelo di Matteo. Diciamo allora che mi limiterò a manifestare un fastidio. Mi dà molto fastidio l'esultanza, lo sventolar di bandiere quando si tratta di morte. Per dire, io sono favorevole alla pena capitale ma certamente non godrei se venisse ripristinata: sarebbe giustizia, non sarebbe una festa. Mentre invece vedo i radicali molto festosi, vedo immagini di un Marco Cappato molto soddisfatto, anzi no, scusate, ha appena scritto dei tweet meditabondi. Che stia vivendo una molto umana resipiscenza? Magari. Invece è preoccupato perché l'Asl delle Marche, nel caso di Mario, non sa «che farmaco usare». E magari potrebbe, non sia mai, rimandare la somministrazione della dose letale.

Dunque constato innanzitutto un problema di parole: ciò che loro chiamano farmaco io lo chiamo veleno, ciò che chiamano fine vita io la chiamo morte. Domanda: perché l'avanguardia eutanasista, la compagnia della buona morte al tempo dell'ateismo di massa, non usa mai le parole giuste? Che cos'ha da nascondere? Non inviterò certo Cappato e compagni a rileggere il Catechismo, secondo il quale «la cooperazione volontaria al suicidio è contraria alla legge morale», mi farei ridere dietro. Li inviterò a riflettere sull'ottavo comandamento, quel «Non dire falsa testimonianza» che è riconosciuto fondamento del vivere da tutti, non solo da ebrei e cristiani. Chiamando una cosa col suo vero nome è facile accorgersi della sua vera natura: parlare di esecuzione, sebbene di consenziente, sarebbe più onesto, renderebbe meglio l'idea.

E farebbe capire che non c'è niente da ridere, che c'è solo da piangere: per Mario e per tutti noi.

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