«Le Marie intorno sembrano infuriate dal dolore - Dolore furiale. Una verso il capo - a sinistra - tende la mano aperta come per non vedere il volto del cadavere e il grido e il pianto e il singulto contraggono il suo viso, corrugano la sua fronte, il suo mento, la sua gola. L'altra con le mani tessute insieme, con i cubiti in fuori, ammantata piange disperatamente. L'altra tiene le mani su le cosce col ventre in dentro e ulula». Così, nei suoi «Taccuini», D'Annunzio descrive il «Compianto» di Niccolò dell'Arca nell'Oratorio di Santa Maria della Vita a Bologna, che visitò nel 1906. E inizia la fortuna di una delle più belle opere d'arte del mondo, conosciuta e ammirata da Michelangelo che le contrappone la sua «Pietà», che il tempo e il male non possono corrompere. Niccolò rappresenta il dolore degli uomini, e soprattutto delle donne, per la perdita di Dio. È un urlo disperato, sconvolgente, che anticipa e sovrasta «L'Urlo» di Munch e inizia una vera e propria storia del dolore che avrà in Mantegna e in Grunewald due esponenti travolgenti.
Per questo appare retorico e banale definire il compianto di Niccolò dell'Arca «incredibile capolavoro» come fa l'improvvido Federico Giannini, che definisce il grande scultore «un pittore di origini pugliesi a lungo attivo a Bologna». I capolavori sono sempre credibili e aumentano la nostra consapevolezza della vita, potenziandola nell'arte. Niccolò fu in grado, come nessuno, di rappresentare l'umano. Umano, troppo umano: non incredibile.
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